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Tre grandi problemi della nostra società - la disoccupazione giovanile, la crisi economica e l’inefficienza dello Stato - devono essere affrontati simultaneamente; nessuno dei tre può essere risolto se non si risolvono gli altri due: e questa proposta keynesiana li affronta contemporaneamente.
L’Italia ha molti problemi. Quelli elencati in questa sezione sono probabilmente i più importanti. Essi possono e debbono essere risolti insieme. L’economia di una nazione non può funzionare bene se lo Stato non funziona bene. E nemmeno se molti di coloro che hanno bisogno di lavorare rimangono disoccupati; anche perché in tal caso risorse importanti vanno sprecate, il che non può essere coerente col buon funzionamento di un’economia. I motivi per cui lo Stato italiano non funziona bene sono essenzialmente due:
(i) La Pubblica Amministrazione inefficiente e sottodimensionata
(ii) L’eccesso di legislazione
La nostra proposta è diretta ad affrontare il primo dei due problemi.
Sull’eccesso di legislazione non vogliamo dilungarci: esso non fa parte della riforma della P.A. ed è argomento tutto da affrontare in Parlamento; ma è opportuno qualche commento aggiuntivo.
In Italia sono attualmente in vigore circa 50 mila leggi e leggine, mentre in Francia – per esempio – se ne contano solo 5 mila. L’intralcio burocratico che ne deriva rende difficoltoso, quando non impossibile, qualsiasi progetto innovativo, ne allunga i tempi in modo sovente insopportabile e si presta a interpretazioni e contenziosi da e in tutte le direzioni. Una seria riforma della P.A. non può prescindere da questo problema la cui soluzione richiederà sicuramente tempi lunghi anche se le forze politiche che dovranno affrontarlo in Parlamento trovassero un accordo di massima sulla sua realizzazione. Questa necessità però non deve impedire di affrontare intanto i problemi dell’inefficienza e del sottodimensionamento della P.A.
Questo sito è dedicato a illustrare e sostenere una proposta di politica economica che potrebbe contribuire molto al rilancio dell’economia italiana tramite un rapido miglioramento del funzionamento dello Stato (e più in generale della Pubblica Amministrazione) e tramite un consistente aumento dell’occupazione.
La proposta consiste in questo: la Pubblica Amministrazione deve assumere alcune centinaia di migliaia di giovani qualificati (orientativamente un milione). A prima vista può sembrare una proposta poco realistica; ma essa è in realtà praticabile, sensata, coerente con la teoria economica e dai costi limitati. Si basa su quattro pilastri, e cioè: 1) a confronto con paesi paragonabili, l’occupazione nel settore pubblico è in Italia più bassa, al punto da costituire uno dei principali motivi, probabilmente il principale motivo, dell’inadeguatezza della nostra Amministrazione; 2) sempre a confronto con paesi paragonabili, in Italia esiste un paradosso: la quota di laureati sulla popolazione è bassa, ma al tempo stesso la quota di disoccupati fra i laureati è alta. Questo paradosso è dovuto in buona parte al sottodimensionamento del settore pubblico; una sua espansione contribuirebbe quindi a rendere più normale la condizione lavorativa dei giovani qualificati del nostro paese;
3) le assunzioni non devono essere lineari, cioè in proporzione all’organico attuale, bensì avvenire sulla base di progetti e richieste locali attentamente valutate, in concorrenza fra loro, da un organo strettamente apolitico;
4) le risorse finanziarie possono essere ottenute con un’imposta sulla ricchezza finanziaria (quindi NON sulla casa e le proprietà immobiliari) in vigore per tre anni, con aliquote progressive marginali modeste (dal 5‰ al 14‰)
Tutti questi punti, e i dati a loro sostegno, sono esaminati e discussi in dettaglio nelle varie sezioni di questo sito. La proposta è stata elaborata da economisti e sociologi delle Università piemontesi con un’esperienza di molti decenni di ricerca (si veda Chi siamo). Crediamo perciò di avere il diritto di chiedere alle lettrici e ai lettori di non respingerla senza averla prima valutata seriamente. Se intendono farlo, li preghiamo allora di passare alla sezione

Antefatto

Un’economia non può funzionare bene senza uno Stato che funzioni bene e un’amministrazione pubblica qualificata e adeguatamente dimensionata;

L’economia di un paese non può funzionare bene se in quel paese lo Stato, e più in generale la Pubblica Amministrazione, non funziona bene. Ce lo dice il buon senso, ma ce lo dice anche Milton Friedman, Premio Nobel, fondatore della “scuola di Chicago” e capostipite del neo-liberismo. Friedman scriveva nel 1962 (in Capitalism and Freedom): “Un governo che mantenga la legge e l’ordine, definisca i diritti di proprietà, risolva le dispute sull’interpretazione delle regole, imponga l’osservanza dei contratti, promuova la concorrenza, gestisca la moneta [...] svolge funzioni importanti. Un liberale coerente non è un anarchico.” Anche un liberista estremo, in sostanza, ritiene che lo Stato abbia un ruolo importante per il funzionamento dell’economia. Naturalmente gli economisti meno liberisti assegnano allo Stato un ruolo più ampio. Qual è la dimensione giusta? Rispondere sul piano teorico è difficile se non impossibile. Possiamo però affidarci a un criterio più empirico: suggeriamo che le dimensioni giuste di una Pubblica Amministrazione siano quelle dei paesi la cui economia funziona bene. Qual è la situazione dell’Italia sulla base di questo criterio? Lo vediamo nel successivo Approfondisci. Ma rimaniamo, per ora, all’Italia e alla sua situazione.
Il cattivo funzionamento dello Stato non danneggia tutti allo stesso modo: alcuni ci guadagnano. Fra questi ci sono le varie mafie, naturalmente; ma non solo. Se la sanità pubblica non funziona, l’opinione pubblica sarà indotta a credere che sia meglio affidarla a imprenditori privati, anche se molto spesso la sanità privata funziona peggio e costa di più di quella pubblica. Lo stesso per la scuola. E naturalmente per la giustizia: siamo proprio sicuri che i ritardi della giustizia civile, dovuti anche alla carenza di personale, siano un problema che tutti vogliono risolvere? Siamo sicuri che è solo per risparmiare che non si vogliono potenziare gli ispettorati del lavoro, la scuola pubblica o il servizio sanitario nazionale? Un’obiezione che abbiamo spesso ricevuto è che lo Stato funziona troppo male per potere gestire un piano straordinario di occupazione in modo serio. Come spiegato più diffusamente altrove in questo portale (si veda l’ultimo Approfondisci della sezione I cittadini non si ribellerebbero a una nuova tassa?) pensiamo che non debba essere lo Stato centrale a farlo, e nemmeno le Regioni. Le richieste di assunzione devono essere avanzate dagli enti interessati a livello locale, e devono essere vagliate da un organismo tecnico indipendente. L’abuso che si è fatto del termine “tecnico” per giustificare ogni sorta di politica ha creato una diffusa sfiducia verso qualunque proposta che lo includa; ma in Italia esistono le risorse umane perché questo compito possa essere svolto degnamente sia dal punto di vista morale sia da quello professionale. Dobbiamo però rifiutare il circolo vizioso per cui lo Stato non funziona e non è possibile modificare questa situazione, quindi è meglio che lo Stato non faccia nulla, quindi funzionerà ancora peggio. Se l’aumento del numero di dipendenti pubblici è necessario, ed è necessario che venga fatto bene, e non può essere fatto bene se non con una seria battaglia politica contro chi non vuole tutto ciò, allora bisogna combattere questa battaglia politica. Che è anche una battaglia per una nuova cultura civile, in cui lo Stato deve tornare a essere non un nemico ma l’istituzione fondamentale della democrazia. In conclusione: l’economia di un paese non può funzionare bene se lo Stato non funziona bene; e uno Stato non può funzionare bene se non ha il personale necessario. In Italia, molto semplicemente, questo personale oggi non è sufficiente.
Ci sono centinaia di migliaia di giovani che vorrebbero dare il loro contributo. Come si può vedere nella sezione Come finanziare la proposta keynesiana in modo compatibile con i vincoli europei? i soldi ci sono. Chiediamo che i giovani siano messi in grado di dare questo contributo. Se non l’avete già fatto, vi consigliamo a questo punto di guardare le tabelle.
Tabella 1. Personale civile. Tutti i livelli di governo. Dati OECD 2011. tab1-2 (°) Il dato della Germania, apparentemente superiore a quello italiano, è abbassato dal regime privatistico del personale sanitario. Infatti l’incidenza della spesa per il personale sanitario sul PIL era il 2,5% in Italia, il 2% nell’UE-27 e solo lo 0,04% in Germania, mentre quella delle “prestazioni sanitarie in denaro o in natura” era rispettivamente del 2,6%, del 3,6% e del 6,4%. fonte: La spesa pubblica in Europa, Ministero delle finanze, 2013.
Tabella 2.Dipendenti civili dei settori Pubblica Amministrazione, salute, educazione, previdenza sia pubblici sia privati e impiegati con qualsiasi tipo di contratto. Dati ILO, 2012.
tabella4

in Italia il tasso di disoccupazione ufficiale supera il 12%. Questo indicatore non tiene però conto di oltre 3 milioni di persone che si dichiarano “inattive, ma disponibili a lavorare subito”. Questi sono, a tutti gli effetti, “disoccupati scoraggiati” i quali vengono ritenuti fuori dalle forze di lavoro perché non hanno compiuto azioni per la ricerca di lavoro nell’ultimo mese. Se anche questi si aggiungessero ai disoccupati ufficiali il tasso di disoccupazione italiano sarebbe assai più alto;

Il tasso di disoccupazione viene rilevato dall’ISTAT mediante un’indagine campionaria, vale a dire mediante interviste, ed è il rapporto in percentuale fra coloro che nelle quattro settimane prima della rilevazione di riferimento hanno cercato lavoro, senza trovarlo, e la popolazione attiva (cioè la somma di costoro e degli occupati). Soprattutto nei periodi di crisi questo dato sottovaluta il peso reale della disoccupazione. Il motivo è che se trovare lavoro è difficile molti smetteranno di cercarlo. Nel gergo degli economisti queste persone vengono definite “disoccupati (o lavoratori) scoraggiati”, e nell’indagine ISTAT esse vengono classificate sotto due voci diverse, “coloro che cercano lavoro non attivamente ma sono disponibili a lavorare” (1.732.000 alla fine del 2013) e “coloro che non cercano lavoro ma sono disponibili a lavorare” (1.378.000). Alla fine del 2013 i disoccupati in senso stretto erano 3.113.000, e il tasso di disoccupazione relativo era il 12,2%; ma se aggiungiamo il primo aggregato il tasso passa al 17,7%, e se aggiungiamo anche il secondo passa addirittura al 21,7%. Non solo: ci sono più di 500.000 lavoratori in CIG (Cassa Integrazione Guadagni) che, in quanto tali, sono classificati fra gli occupati; spesso tuttavia la sospensione del lavoro non è temporanea, e quando ciò si verifica essi andrebbero più propriamente classificati come disoccupati, con un conseguente ulteriore aumento del tasso reale di disoccupazione. Non basta: una buona parte dei circa 4.000.000 lavoratori a tempo parziale preferirebbe probabilmente lavorare a tempo pieno, e quindi tali lavoratori andrebbero considerati parzialmente disoccupati. In sostanza, il tasso ufficiale di disoccupazione descrive una situazione molto meno grave di quella reale; il che rende evidentemente ancora più necessario e urgente adottare politiche rivolte esplicitamente ad aumentare l’occupazione.

qualsiasi riforma modernizzante della Pubblica Amministrazione (riforma assolutamente necessaria e complementare di questa proposta) può raggiungere i risultati attesi in termini di efficienza ed efficacia solo se prevede anche un consistente aumento del personale qualificato;

Scopriamo infatti che la causa principale del cattivo funzionamento della macchina statale è una grave carenza di personale. Proprio così. I dipendenti pubblici in Italia sono molto, davvero molto meno numerosi di quanto siano in altri paesi comparabili. Nel 2011 in Italia c’erano 3.435.000 dipendenti pubblici (di cui 320.000 precari, tra collaboratori e partite IVA), contro i 6.217.000 della Francia e i 5.785.000 del Regno Unito, paesi con una popolazione molto simile a quella dell’Italia e un PIL (per ora) non troppo superiore. Anche in Spagna e negli Stati Uniti i dipendenti pubblici civili (quindi senza considerare i militari, particolarmente numerosi negli USA) sono più numerosi che in Italia: ogni mille abitanti ce ne sono rispettivamente il 15,2% e il 24,7% in più. Se consideriamo il solo personale amministrativo, per avere in Italia lo stesso numero di dipendenti pubblici per mille abitanti che c’è in Germania bisognerebbe ricorrere a 417.000 nuove assunzioni, a fronte di un’occupazione attuale di 1.337.000: un incremento del 31,19%. E per avere lo stesso numero di impiegati amministrativi civili per mille abitanti degli USA bisognerebbe assumerne addirittura 1.309.000. È importante osservare che questa differenza rispetto all’Italia si ha sia per paesi più “socialdemocratici” sia per paesi più liberisti: ciò che li accomuna è che la loro economia funziona meglio della nostra. Come si è detto, i valori sono quelli del 2011, l’ultimo anno per il quale esistono dati comparabili al momento della scrittura di questo testo; ma successivamente le differenze si sono probabilmente più ampliate che ridotte, dato il blocco del turnover nel nostro paese. La tabella 1 presenta i dati con maggior dettaglio (VEDI TABELLE).
Una domanda legittima: questa differenza potrebbe dipendere dalle privatizzazioni? Forse che in Italia ci sono meno dipendenti pubblici perché negli stessi settori ci sono più dipendenti privati? Non è così. Se guardiamo non al numero di impiegati pubblici, ma al numero di impiegati nei principali servizi per il pubblico, pubblici e privati insieme, cioè pubblica amministrazione, sanità, istruzione e previdenza, troviamo una differenza ancora maggiore: per ogni mille abitanti, in Francia e in Germania abbiamo il 74% di personale in più rispetto all’Italia, e nel Regno Unito addirittura l’88% in più (questi dati sono di un’altra fonte ufficiale sovranazionale, il BIT, si riferiscono al 2012 e sono riportati nella tabella 2; il dato per gli USA non è disponibile). (VEDI TABELLE).
È opinione comune, e certamente fondata, che ci sono impiegati statali che lavorano male, e che in certi posti ci sono troppi addetti e in altri troppo pochi. Tutto ciò è vero, naturalmente. Occorre che il personale della Pubblica Amministrazione sia utilizzato meglio. Occorre che l’assenteismo sia punito. Ma non facciamoci troppe illusioni su quanto la riforma della Pubblica Amministrazione possa essere efficace se non è accompagnata da un massiccio incremento di personale. In primo luogo, gli esuberi non sono poi tanti: nel 2014 il commissario straordinario Cottarelli ne ha contati 58.000. Anche spostandoli là dove servono di più la situazione non cambierebbe molto. Poi, il personale adatto a gestire un’amministrazione moderna in buona parte semplicemente non c’è: per quanto lo si sposti, non si può trasformare un bidello di 50 anni con la sola licenza elementare in un esperto di computer. Ancora, rispetto ai paesi comparabili i pubblici dipendenti italiani hanno un’età media molto avanzata, e una scolarità media molto bassa, come vedremo nei prossimi Approfondisci. Infine, e forse soprattutto, se alcuni lavoratori lavorano male dipende anche dalla carenza di personale. Come può una maestra lavorare al meglio, se deve occuparsi da sola di una classe di 30 bambini di cui dieci non parlano bene l’italiano? O come può un genitore lavorare bene se i suoi bambini non hanno posto all’asilo e non ha la possibilità di pagare una baby sitter? Riassumendo. È certamente auspicabile che (per esempio) i cancellieri dei tribunali lavorino nel modo più efficiente possibile; ma se fossero troppo pochi per essere all’altezza dei loro compiti anche in quelle condizioni, allora occorrerebbe assumerne altri se si vuole che la giustizia funzioni. Questi altri devono essere tutti e solo quelli che servono una volta che sia stato ottimizzato l’uso delle risorse esistenti; anche se non si può attendere che questo processo sia completato, data la gravità del nostro ritardo. La riforma della Pubblica Amministrazione e l’assunzione di nuovo personale devono andare insieme: non sono manovre alternative, ma complementari. Ma se si devono assumere alcune centinaia di migliaia di giovani nella Pubblica Amministrazione, dove possiamo trovarli? La risposta è nel successivo Approfondisci.

in Italia, nonostante uno dei più bassi tassi di scolarità in Europa, c’è un’elevata disoccupazione fra coloro che hanno un livello di istruzione medio o alto;

Nel nostro paese il personale qualificato, o qualificabile on the job, necessario per un’amministrazione moderna esiste, ma non è utilizzato. L’Italia è all’ultimo posto nell’Unione Europea come percentuale di laureati sulla popolazione fra 25 e 54 anni (e al terzultimo su quella da 55 in su), e al secondo posto (dopo la Grecia) per tasso di disoccupazione dei laureati (dati Eurostat). Sono dati drammatici. Come si spiega questo apparente paradosso? La causa di ciò è soprattutto il sottodimensionamento del settore pubblico, come vedremo nel successivo Approfondisci.

una delle cause principali della bassa domanda di forza lavoro altamente qualificata è il basso numero di dipendenti pubblici: in tutti i paesi sviluppati il settore pubblico è il principale datore di lavoro per i laureati;

In un paese europeo normale il settore pubblico è il principale datore di lavoro di giovani laureati, dato il suo peso in ambiti come la sanità, l’istruzione e l’amministrazione. In Francia, per esempio, il 76,5% dei laureati fra il 2000 e il 2010 è entrato nella Pubblica Amministrazione (fonte Forum PA). Nel Regno Unito i pubblici dipendenti laureati sono il 54%, in Italia il 34%. Per ricondurre la Pubblica Amministrazione italiana a condizioni tipiche di un paese moderno occorre quindi aumentare il numero di giovani qualificati, soprattutto laureati. Questo non solo contribuirebbe, e non poco, a rendere meno grave il problema della disoccupazione giovanile, che ormai non è più solo drammatico ma tragico; aumenterebbe anche il livello medio di scolarità della Pubblica Amministrazione, e quindi la sua efficienza.

oggi l’età media dei dipendenti della P.A. si avvicina a 50 anni; il 48% del personale attuale andrà in pensione prima del 2029 e il 27% prima del 2024. È necessario quindi in tempi brevi un indilazionabile ricambio generazionale.

Questo spiega perché abbiamo parlato di giovani laureati. E rende particolarmente grave l’attuale politica di blocco del turnover, attuato in nome del risparmio di spesa pubblica. Abbiamo visto che è illusorio pensare di risolvere il problema dell’inefficienza della nostra Pubblica Amministrazione senza aumentare il numero di addetti. Pensare di farlo riducendo questo numero è scriteriato. Chi lo sostiene confonde produzione con produttività. La produzione è ciò che un’impresa o un ente producono. La produttività è quanto essi producono diviso per il numero di dipendenti. Se i dipendenti di un ente sono cento e l’ente svolge mille pratiche la produttività è dieci. Se i dipendenti diventano cinquanta e l’ente svolge seicento pratiche la produttività diventa dodici. Un aumento del 20%. Ma come funzionerà quell’ente se le pratiche da svolgere sono mille, o magari duemila, e nessun lavoratore, per quanto utilizzato nel modo migliore possibile, può farne, continuando a seguire questo ipotetico esempio, più di dodici? A questo punto si pone un’altra domanda. Se quanto sopra è vero, perché non è già stato fatto? Proviamo a rispondere nel successivo Approfondisci.

Nella P.A. italiana i dipendenti sono pochi

Nel loro insieme i dipendenti pubblici italiani sono molto meno numerosi di quanto siano negli altri paesi comparabili al nostro per dimensioni e livello di sviluppo: in Italia sono 3.350.000, in Francia circa 6.200.000 e nel Regno Unito circa 5.800.000. Persino negli USA ci sono più dipendenti pubblici per mille abitanti che in Italia, anche escludendo i militari;

Che in Italia la Pubblica Amministrazione funzioni peggio rispetto a paesi comparabili è un luogo comune molto probabilmente corrispondente al vero. Che ciò sia dovuto soprattutto allo scarso impegno e a un uso inefficiente dei pubblici dipendenti è invece un luogo comune quasi sicuramente sbagliato. La Francia e il Regno Unito hanno un numero di abitanti molto simile a quello dell’Italia e un livello di sviluppo paragonabile ma una Pubblica Amministrazione più numerosa che in Italia; e indubbiamente in quei paesi la Pubblica Amministrazione funziona meglio che da noi. Una Pubblica Amministrazione che funzioni meglio non vuole dire solo migliori servizi ai cittadini, cosa peraltro molto importante. Vuole anche dire un’economia che cresce di più e regge meglio la concorrenza internazionale: basti pensare all’importanza della rapidità della giustizia civile, all’efficienza dell’amministrazione finanziaria e al ruolo di una moderna istruzione tecnica e professionale. Pensare che l’Italia possa essere competitiva con i paesi europei più sviluppati con un’amministrazione così sottodimensionata è illusorio. Un’analisi più approfondita dei dati è nella sezione Antefatto. I dati si riferiscono al 2011, ma negli anni successivi il confronto non è certamente migliorato a favore dell’Italia, piuttosto il contrario.

questa differenza rimane anche se si considera la presenza del settore privato nella fornitura dei servizi pubblici: in altri termini, non è una conseguenza delle privatizzazioni nel nostro paese.

Negli ultimi anni l’Italia si è molto impegnata nelle privatizzazioni; si potrebbe quindi pensare che il minor numero di dipendenti pubblici non implichi una minore occupazione nella produzione di servizi, ma solo che una parte di essa è fornita dal settore privato. Non è così. Se consideriamo l’occupazione totale, pubblica e privata, nei settori tipicamente pubblici, vale a dire amministrazione, sanità, istruzione e assistenza sociale troviamo che in Francia c’erano (nel 2012) 7.770.000 dipendenti, 1 ogni 8,2 abitanti, nel Regno Unito 8.741.000, uno ogni 7,3, in Germania 8.780.000, uno ogni 8, e in Italia 3.745.000, addirittura uno ogni 13. Il confronto peggiora ulteriormente rispetto a quello che tiene conto solo dei dipendenti pubblici. Anche in questo caso un’analisi più approfondita dei dati è nella sezione Antefatto.

Precondizioni per lo sviluppo economico

La politica di austerità impoverisce progressivamente il paese, fa crescere il numero di disoccupati, deprime salari, consumi e produzione di beni e causa il crollo del gettito fiscale; e quindi fa lievitare il rapporto fra debito pubblico e PIL;

Ogni anno l’Italia paga circa 75 miliardi di interessi per il suo debito pubblico. Si potrebbe pensare che sono una partita di giro. Chi ha dei BOT paga le tasse, ma almeno una parte di esse gli vengono restituite come interessi, e per l’economia italiana nel suo complesso sono comunque soldi che rimangono in casa. Purtroppo non è così. La quota di debito pubblico in mano alle famiglie italiane è intorno al 10%. Il resto è quasi tutto in mano alle banche, e non solo a quelle italiane; e in regime di globalizzazione le banche prestano i soldi là dove rendono di più, e quindi non in Italia. Buona parte di quei miliardi viene quindi sottratta all’economia reale del nostro paese. C’è un evidente circolo vizioso: questo esborso riduce la domanda, le imprese sono in difficoltà, date queste difficoltà le banche concedono poco credito per timore di insolvenza, le imprese non investono, la domanda si riduce ulteriormente, la difficoltà delle imprese crea disoccupazione, il gettito fiscale e il PIL si riducono, il rapporto debito/PIL aumenta, l’esborso per interessi aumenta, per pagare lo Stato aumenta imposte e tasse e riduce le spese, e ciò riduce ancor più la domanda. Non intendiamo discutere qui dell’assennatezza di questa politica. Ciò che ci preme sottolineare è che, proprio perché la situazione è così difficile, è essenziale che la macchina statale lavori al meglio, che cioè la Pubblica Amministrazione produca ciò che serve all’economia nella quantità e nella qualità necessarie. Attenzione: è chiaro che i pubblici dipendenti devono essere impiegati nel modo più produttivo possibile, ma non bisogna dimenticare che non ha senso parlare di produttività, cioè di quanto produce in media un pubblico dipendente, se prima non si parla di produzione, cioè di ciò che lo Stato deve fare: lo Stato deve fornire i servizi che servono, non di più e non di meno. È in grado di farlo? Lo vediamo AL TASTO “ANTEFATTO”.

è illusorio pensare che si possa rilanciare l’economia solo operando sui costi dell’industria.

Nonostante la crisi e la carenza di una vera politica industriale da almeno vent’anni a questa parte, l’industria italiana è tuttora la seconda dell’Unione Europea, dopo la Germania. Molti ritengono, a nostro avviso con ragione, che il nostro paese non può uscire dalla crisi senza un rilancio della sua industria. Ma non dobbiamo illuderci che ciò possa avvenire senza un intervento diretto dello Stato; abbiamo visto che la domanda interna è bloccata da un circolo vizioso, e quella estera costituisce meno del 10% del PIL, e subisce evidentemente i contraccolpi della difficile situazione mondiale. Non dobbiamo credere che la sola ripresa dell’industria possa dare un contributo sufficiente alla riduzione della disoccupazione. Soltanto il 20% circa degli occupati lavora nell’industria manifatturiera, e una ripresa della produzione industriale richiede un aumento consistente della produttività, il che implica un aumento di occupazione limitato. Le politiche seguite dagli ultimi governi hanno puntato soprattutto sulle cosiddette politiche dell’offerta,essenzialmente cercando di operare sulla riduzione dei costi. Ma l’esperienza, e anche la buona teoria economica, ci insegnano che, in una situazione come quella in cui ci troviamo, per aumentare la produzione occorre operare sulla domanda. E questo richiede un aumento della possibilità di consumo della popolazione.

Che fare per rilanciare l’economia?

Una politica di tipo keynesiano, ovvero un forte intervento dello Stato nell’economia, potrebbe far crescere la domanda interna, innescando un circolo virtuoso;

Perché oggi in Italia (e non solo) la disoccupazione è enorme? Un disoccupato non produce nulla, tutti (o quasi) i disoccupati sarebbero contenti di lavorare, e in Italia ci sarebbero moltissime cose da fare. Evidentemente qualcosa non funziona nei meccanismi che dovrebbero far sì che le risorse di lavoro disponibili vengano impiegate per produrre le cose che servono. In una crisi, questo qualcosa che non funziona è il mercato: la domanda (“le cose che servono”) non può manifestarsi in misura sufficiente perché i consumatori non hanno abbastanza risorse da spendere, e le imprese non vendono abbastanza e devono quindi licenziare lavoratori, il che abbassa ulteriormente la domanda: si ha un circolo vizioso che raramente si risolve da solo. Nei casi più gravi, come la crisi attuale e quella del 1929, non capita mai; soprattutto se i governi adottano politiche sbagliate, come hanno fatto allora (non tutti) e come stanno facendo adesso (non tutti, ma il nostro sì). L’errore consiste nell’adozione di politiche di austerità, come ci insegna la teoria economica (Keynes, e non solo) e come ci insegna la prassi di paesi più liberi da vincoli (gli USA in primo luogo; con l’amministrazione Roosevelt nel 1929 e con amministrazioni sia democratiche sia repubblicane nel dopoguerra).
Se le imprese non assumono perché i consumatori non hanno abbastanza soldi da spendere e i consumatori non hanno abbastanza soldi perché le imprese non occupano abbastanza lavoratori, è lo Stato che deve intervenire a sostenere la domanda. L’iniezione di nuova domanda avrebbe naturalmente un effetto moltiplicativo (la maggiore spesa produrrebbe nuova domanda di lavoro, con un ulteriore aumento dei consumi e infine con una ripresa degli investimenti). Il circolo vizioso potrebbe trasformarsi in un circolo virtuoso.

le politiche keynesiane classiche sono opportune ma insufficienti perché poco efficaci nell’affrontare i problemi della disoccupazione di personale qualificato e della carenza di servizi;

Contrariamente a quanto viene a volte raccontato, Keynes non ha proposto di pagare lavoratori per fare loro scavare buche e poi riempirle. Ciò che ha detto era piuttosto che persino se si fossero assunti dei lavoratori per quello scopo si avrebbe avuto un miglioramento della situazione economica, ma che era ovviamente molto meglio impiegare i lavoratori neoassunti per fare ciò che era più utile per la società. Ai suoi tempi la disoccupazione riguardava soprattutto il personale non qualificato, e i beni pubblici di cui maggiormente necessitava l’economia del suo paese erano le grandi opere pubbliche. Oggi è essenziale dare lavoro ai giovani qualificati, e dove la nostra economia è particolarmente carente è nella produzione di servizi pubblici (si veda Antefatto). Ciò che noi proponiamo è appunto l’assunzione di giovani qualificati per la produzione di servizi pubblici. Va però sottolineato che essa non si contrappone ad altre proposte che puntano invece a interventi pubblici più tradizionali (si vedano i LINK).

proponiamo una politica atta a innescare un diverso circolo virtuoso keynesiano: 1) creazione diretta da parte dello Stato di occupazione qualificata, pari a circa un milione di laureati e diplomati assunti nei servizi essenziali per lo sviluppo del paese 2) crescita conseguente del volume dei redditi da lavoro dipendente 3) crescita dei consumi 4) crescita della produzione 5) crescita dell’occupazione indotta 6) crescita del gettito fiscale 7) riduzione del rapporto fra debito pubblico e PIL;

Non proponiamo che lo Stato spenda dei soldi in un modo qualsiasi. Esiste una vasta offerta di giovani laureati e agevolmente qualificabili (per esempio, un laureato in psicologia può diventare un insegnante di sostegno con un percorso formativo, anche on the job): si tratta di risorse umane che hanno la capacità (e anche la voglia) di essere utili. Come spiegato in altre sezioni (si veda Antefatto) proponiamo orientativamente l’assunzione di circa un milione di giovani, benché questa cifra non sia sufficiente a colmare il divario che ci separa dai paesi europei paragonabili. Le assunzioni di questo personale aggiuntivo devono essere fatte in un modo che escludano meccanismi clientelari. Le richieste di assunzioni devono essere avanzate dai vari enti a livello locale, sulla base di un progetto articolato e documentato; e questi progetti devono essere valutati in concorrenza fra loro da un ufficio dotato delle adeguate capacità tecniche e rigorosamente apolitico. L’iniezione di 20 miliardi di domanda aggiuntiva per un triennio, che si avrebbe adottando questa politica, potrebbe avviare il circolo virtuoso di cui abbiamo parlato (si veda il primo “approfondimento” di questa sezione), tanto più facilmente se un milione di lavoratori qualificati in più consentiranno una maggiore efficienza della macchina amministrativa; propiziando quindi il processo che abbiamo elencato per punti nel titolo di questo approfondimento.

se assumiamo conservativamente un moltiplicatore uguale a 2, una iniezione di 20 miliardi per tre anni consecutivi genera un aumento del PIL pari a 20 mld dopo un anno, 50 mld dopo due anni e 85 mld alla fine del terzo anno.

Sviluppiamo qui qualche considerazione tecnica. Il circolo virtuoso di cui abbiamo parlato dipende essenzialmente dal moltiplicatore della spesa: con questo termine si indica l’effetto di attivazione che una spesa iniziale ha sull’intera economia, misurato comunemente dalla crescita del PIL. Esistono gli strumenti per valutare questo effetto; e una stima assai cauta del suo valore consente di essere ragionevolmente certi che dopo tre anni l’economia sarà cresciuta in misura più che sufficiente a garantire il pagamento degli stipendi delle nuove assunzioni tramite il maggior gettito della fiscalità ordinaria, senza più ricorrere all’imposta patrimoniale sulla ricchezza finanziaria (e, ripetiamo, non sulla casa e le proprietà immobiliari) che suggeriamo.
Veniamo ora alla stima del moltiplicatore keynesiano: si suppone che la propensione al consumo (cioè la quota di reddito che viene spesa e non risparmiata) dei giovani all’inizio di carriera sia 0,9, che spendano cioè il 90% del loro reddito; che la propensione a importare beni di consumo sia 0,3; e che, poiché molti giovani di oggi consumano già a spese dei genitori/nonni, questi, una volta occupati i propri discendenti, potrebbero decidere di risparmiare qualcosa in più, in ragione di un ulteriore 0,1 da sottrarre al consumo.
In definitiva la propensione al consumo rilevante potrebbe realisticamente stimarsi in 0,9 – 0,3 – 0,1 = 0,5, il che, come ci insegna la teoria economica, implica un effetto moltiplicativo di lungo periodo uguale a [1/ (1 – 0,5)] = 2. Dopo tre anni di applicazione dell’imposta patrimoniale, con un’iniezione complessiva di 60 miliardi (20 miliardi all’anno), l’effetto moltiplicativo produrrebbe 85 miliardi aggiuntivi di PIL. Nei tre anni successivi, senza più altro prelievo fiscale ad hoc, l’incremento di PIL ammonterebbe a 102 miliardi alla fine del quarto anno, 111 miliardi alla fine del quinto, e 116 alla fine del sesto. Cifre più che sufficienti per sostenere la nuova occupazione. Lo schema di calcolo, riportato nella tabella 3 è il seguente (per 1 miliardo di prelievo e investimento occupazionale per 3 anni consecutivi). Incremento di PIL in anni successivi (alcune ulteriori note tecniche sono disponibili nelle FAQ):
tabella2
Potrebbe esserci un effetto espansivo anche dal lato dell’offerta. Teorie economiche di poco successive a quelle di Keynes (Harrod 1936 e Samuelson 1939) hanno abbinato il modello dell’acceleratore (Clark 1917) a quello del moltiplicatore. Pertanto l’incremento di domanda determinato dal moltiplicatore induce gli imprenditori privati a desiderare di produrre di più per soddisfare tale aumento di domanda e incrementare pertanto ricavi e profitti. Investimenti e nuove assunzioni sono il mezzo attraverso il quale tali aumenti di produzione saranno realizzati. In tempi un po’ più lunghi di quelli sopra accennati, avremo dunque una doppia sinergia che coinvolge domanda, investimenti, occupazione e offerta.

Come finanziare la proposta keynesiana in modo compatibile con i vincoli europei?

Il costo pro-capite medio degli assunti può essere stimato in circa 20 mila Euro all’anno, supponendo una retribuzione netta di circa 1.200 Euro mensili per 13 mesi, e includendo gli oneri sociali ma non quelli fiscali. Pertanto, il costo del piano straordinario proposto, nell’ipotesi di un milione di nuovi assunti, è compreso fra i 15 e i 20 miliardi l’anno. Il piano dovrebbe restare in vigore orienta- tivamente per tre anni, dopodiché la crescita del PIL consentirebbe il finanziamento con mezzi ordinari (si veda la sezione Che fare per rilanciare l’economia?). È una cifra consistente, ma reperibile; tanto più qualora l’imposizio- ne fiscale necessaria fosse una vera imposizione di scopo;

Gli oneri sociali che fanno parte della retribuzione di ogni dipendente sono quelli chiamati oneri previdenziali, ovvero la parte del reddito che non va direttamente al lavoratore ma che contribuisce alla sua copertura assistenzia- le (malattia, maternità, pensione, ecc.); mentre gli oneri fiscali sono le imposte che gravano sul lavoro. Tali impo- ste non sono incluse nel costo stimato di 20 mila Euro all’anno perché sono una partita di giro, cioè la parte della retribuzione costituita da imposte che ritornano direttamente allo Stato; nel caso, infatti, dei dipendenti pubblici, essendo lo Stato il datore di lavoro, tali oneri fiscali divengono, appunto, una partita di giro: lo Stato li paga e li incassa. Per quanto riguarda il tempo limitato di tre anni, esso si riferisce all’effetto moltiplicatore che questo piano accen- derebbe; effetto in grado di portare, come già ben descritto nella sezione Che fare per rilanciare l’economia?, al terzo anno 85 miliardi di Euro di PIL aggiuntivo.
Infine, si definisce imposizione di scopo una imposta il cui gettito sarebbe utilizzato interamente e solo per lo scopo prefisso e non verrebbe dirottato altrove; e inoltre l’imposizione di scopo è una imposta che viene revocata appena venuta a mancare la sua necessità, al contrario, per esempio, di certe accise introdotte per un uso specifico e poi mai revocate.

il finanziamento del progetto deriverebbe da una limitata imposta patrimoniale sulla ricchezza finanziaria (e non sulla casa e le proprietà immobiliari, manovra che finirebbe per essere fortemente regressiva). Tale imposta non entrerebbe in conflitto con i vincoli europei sul rapporto deficit/PIL;

Proponiamo un’imposta patrimoniale di scopo sulle attività finanziarie detenute dalle famiglie. La ricchezza delle famiglie italiane nel 2013 si aggira, mediamente, intorno a 330 mila Euro per famiglia. Le attività reali (vale a dire gli immobili) costituiscono il 61% della ricchezza delle famiglie italiane. Le attività finanziarie (azioni, obbligazioni, conti correnti, BOT, ecc.) contano per il restante 39%. Limitare l’imposta patrimoniale alle attività finanziarie, escludendo del tutto il patrimonio immobiliare, è una scelta per evitare di colpire pesantemente anche le famiglie più povere. La nostra scelta di non tassare gli immobili, infatti, si basa su alcune considerazioni che elenchiamo nella sezione delle FAQ.
Un’imposta patrimoniale come quella proposta non produrrebbe contrazioni dei consumi privati, e non avrebbe l’impatto recessivo che una stretta fiscale generalizzata imporrebbe a tutto il paese; così come trattandosi di una imposta di scopo essa non graverebbe sul debito italiano, permettendo quindi il rispetto dei vincoli europei sul rapporto deficit/PIL.
I problemi pratici che si frappongono all’introduzione di un’imposta patrimoniale sono indubbiamente seri (al di là dell’opposizione politica che probabilmente troverebbe in Parlamento); ma ancor più seria è l’attuale condizione italiana e in particolare lo sono i tre grandi problemi cui questa proposta, con la sua imposta patrimoniale sulla ricchezza finanziaria per i primi tre anni, cerca di dare una risposta sostenibile: la disoccupazione giovanile, la crisi economica e l’inefficienza dello Stato. tabella3

sarebbe sufficiente un’aliquota progressiva media compresa tra lo 0,23 e il 7,78 per mille, dalla quale dovrebbero essere completamente esenti i nuclei familiari con una ricchezza finanziaria inferiore a 143 mila Euro, vale a dire circa la metà delle famiglie;

L’aliquota marginale dell’imposta patrimoniale dovrebbe essere progressiva, con l’esenzione dei primi 143.000 Euro e variare tra il 5 per mille e il 14 per mille. Ne sarebbero completamente esenti oltre 11 milioni di famiglie italiane, la metà di tutte le famiglie, il cui patrimonio in attività finanziarie non supera 143 mila Euro. Il prelievo sulle famiglie relativamente meno abbienti (appartenenti al 6° decile della distribuzione e con attività finanziarie comprese tra 143 mila e 194 mila Euro) sarebbe compreso fra 1 e 255 Euro all’anno (aliquota marginale del 5 per mille). Quello previsto sul 10% delle famiglie più ricche (patrimonio in attività finanziarie superiore a 533 mila Euro) sarebbe tassato con l’aliquota marginale del 14 per mille: chi avesse un patrimonio di un milione di Euro pagherebbe 12.270 Euro all’anno.

l’aliquota è sufficientemente bassa per non intaccare lo stock di ricchezza, o per intaccarlo in misura minuscola.

Le famiglie italiane mostrano nel confronto internazionale un’elevata ricchezza netta, pari nel 2012 a 8 volte il reddito lordo disponibile; un dato analogo a quello della Francia (8,1) e del Giappone (7,8), ma superiore a quello del Regno Unito (7,4), della Germania (6,4) e degli Stati Uniti (5,8). La ricchezza finanziaria italiana assommava alla fine del 2013 a 3.850 miliardi, il 40% della ricchezza totale. Tuttavia la distribuzione della ricchezza finanziaria nel nostro paese è fortemente sperequata, e ciò fa sì che sia possibile ottenere l’importo necessario con le aliquote progressive illustrate nel terzo Approfondisci di questa sezione.

I cittadini non si ribellerebbero a una nuova tassa?

La ricerca socioeconomica più avanzata indica che i contribuenti non sono troppo maldisposti a una tassazione aggiuntiva, qualora ne condividano lo scopo e abbiano fiducia che il gettito vada realmente ed esclusivamente a raggiungere tale scopo, soprattutto se, come in questo caso, l’esazione dell’imposta non richiede alcun adempimento al contribuente, dato che il prelievo fiscale avverrebbe automaticamente;

La disponibilità dei contribuenti a una tassazione aggiuntiva, se ne condividono lo scopo e se hanno fiducia che tale scopo sia raggiunto, emerge dalle ricerche sulla fornitura privata di beni pubblici e sulle preferenze fiscali. Alcuni studi in questi campi mostrano fra l’altro che le persone sovente preferiscono che i servizi essenziali siano forniti dal settore pubblico. Ulteriori conferme della disponibilità in questione sono fornite dagli esperimenti sulla cooperazione spontanea e dalle ricerche neuroeconomiche, da cui risulta che la gente può trarre soddisfazione dal cooperare.
Ci riferiamo in particolare alla letteratura sperimentale, sia economica sia neurologica, sulla propensione ai comportamenti cooperativi e sulla soddisfazione che essi producono; alle ricerche fatte in vari paesi sulle preferenze fiscali, da cui risulta un orientamento prevalente per la fornitura pubblica dei servizi essenziali rispetto agli stessi servizi forniti dal settore privato; agli esperimenti naturali condotti in vari paesi sulla disponibilità delle persone a contribuire alla produzione di beni pubblici; e inoltre naturalmente all’elevata propensione alla contribuzione di beneficenza effettuata mediante bonifico periodico domiciliato, assimilabile a una imposta di scopo con costi di esazione nulli. L’esazione dell’imposta sulla ricchezza finanziaria verrebbe fatta direttamente dalle banche, così come avviene già adesso per l’imposta sulle rendite finanziarie e per l’imposta di bollo.

il fatto che la disoccupazione giovanile tocchi direttamente o indirettamente una buona parte delle famiglie italiane avvicina e rende visibile a tutti la condivisione dello scopo;

In Italia nel 2013, nella fascia di età 15-34 si contano 223.000 laureati disoccupati o in cerca di primo lavoro, pari. a quasi il 17% dei laureati facenti parte delle forze di lavoro della fascia in questione. Sempre nello stesso arco di età si rilevano 810.000 diplomati nelle stesse condizioni, pari al 22% circa delle forze lavoro con diploma fra i 15 e i 34 anni. Se si limita l’osservazione alla fascia di età 25-34 si rilevano 199.000 laureati (16%) e 413.000 diplomati che hanno perso il lavoro o stanno cercando il primo (15,5%). Inoltre fra le persone della stessa classe d’età che non fanno parte delle forze di lavoro, in cui sono compresi i cosiddetti NEET (Not in Education, Employment or Training), si contano 394.000 laureati e 896.000 diplomati (ISTAT: Rilevazione sulle forze di lavoro 2013). Quote così elevate di giovani diplomati e laureati disoccupati e fuori delle forze di lavoro indicano la quantità di famiglie che è colpita direttamente dalla preoccupazione di figlie e figli che hanno studiato e che non trovano lavoro, talvolta smettendo perfino di cercarlo. I medesimi dati consentono di ritenere che nelle reti sociali che collegano persone e famiglie, siano ampiamente diffuse le informazioni su questo problema e la conseguente condivisione del desiderio di risolverlo. Questo vale sia per le reti costituite dai legami solidali che collegano parenti e amici, sia per quelle che connettono vicini e conoscenti, meno “forti” ma comunque non costituite da relazioni di reciproca indifferenza. Inoltre se si considera il numero dei laureati disoccupati si nota che l’entità del reclutamento di personale qualificato nei ranghi del pubblico impiego prevista dal programma è tale da risolvere sostanzialmente il problema. Anzi il programma potrebbe dare un sostanziale contributo anche alla diminuzione della disoccupazione dei giovani diplomati.

la fiducia, notoriamente bassa nel nostro paese, può essere incentivata affidando il controllo del progetto e delle assunzioni a un’apposita agenzia tecnica di riconosciuta professionalità e rigorosamente apolitica;

Nel 2010 gli italiani che dichiaravano che la loro sfiducia nelle istituzioni era aumentata rispetto all’anno precedente era di poco inferiore al 46%. Nel 2013 in Italia le persone più deluse dalle istituzioni rispetto all’anno prima hanno superato il 73%. In questa situazione rilevata dall’Eurispes potrebbe sembrare irrealistico credere di rassicurare contribuenti, in media così scettici, garantendo loro che il corretto impiego della imposta di scopo sarà guidato e controllato da una agenzia tecnica di riconosciuta professionalità e specchiata onestà; si potrebbe obiettare che nessuna agenzia tecnica per quanto costituita da persone oneste e professionalmente preparate sarà mai in grado di governare in modo adeguato il progetto, garantendone l’efficacia dell’esito. In primo luogo, si potrebbe sostenere che l’authority preposta al controllo delle assunzioni finirebbe di fatto per essere aggirata dai circuiti meno trasparenti della politica che si approprierebbero dei venti miliardi all’anno messi a disposizione dalla tassazione aggiuntiva, distogliendoli dall’obiettivo di creare nuova occupazione. O, quantomeno, l’authority non avrebbe la forza sufficiente per resistere alle pressioni del ceto politico interessato a soddisfare le pressioni clientelari. È indispensabile quindi che l’attività della authority sia sostenuta e garantita da un’adeguata legislazione che vincoli le amministrazioni pubbliche a impiegare tutto il gettito fiscale della nuova imposta di scopo per la creazione di posti di lavoro. Avendo garantito che non un Euro sia speso se non per generare posti di lavoro in più, il timore che l’authority possa essere travolta dalle pressioni clientelari dovrebbe preoccupare molto meno i cittadini contribuenti. Il rischio di clientelismo è infatti assai ridotto dal fatto che il numero di assunzioni previsto dal programma consente pressoché a chiunque abbia i requisiti previsti e faccia domanda di essere reclutato senza dover chiedere aiuto e dover poi ringraziare chicchessia: si sconfigge quindi naturaliter il clientelismo che, con il nepotismo e la corruttela, prolifera innanzitutto sulla scarsità di risorse e sull’arbitrio circa il loro utilizzo.
In secondo luogo si potrebbe sostenere che un comitato di persone terze, per quanto integerrimo, non potrà mai svolgere in modo efficace la sua funzione, innanzi tutto per mancanza dell’informazione necessaria. Si tratta di un’obiezione basata sulla convinzione che una politica volta alla massiva immissione di nuovi dipendenti pubblici debba accompagnarsi a una radicale ristrutturazione complessiva della Pubblica Amministrazione: in assenza di un radicale risanamento come può il contribuente acconsentire a una tassazione aggiuntiva, seppure di moderata entità, per sostenere il reclutamento di nuovo personale? A questa obiezione si può controbattere che, nel caso italiano, l’efficacia dei programmi di assunzione di nuovi dipendenti pubblici previsti dal programma non richiede necessariamente la loro connessione con una sistematica e complessiva riforma della Pubblica Amministrazione. In presenza di un notevole sottodimensionamento di quest’ultima, la semplice introduzione coeteris paribus di giovani istruiti non può che migliorare, con costi sostenibili, la capacità dei servizi pubblici di soddisfare i bisogni delle persone, ovvero la loro efficacia. Per altro l’affiancamento di giovani con buone competenze cognitive, relazionali e trasversali a personale insufficiente, scarsamente professionalizzato, anziano e demotivato rafforza ulteriormente all’interno dei comparti del settore pubblico atteggiamenti, orientamenti culturali e interessi più favorevoli alle innovazioni organizzative, all’introduzione di nuove tecnologie, allo snellimento della burocrazia, a nuove modalità di interazione con gli utenti. Va anche notato che una consistente iniezione di giovani aumenta il peso dei dipendenti che, anziché essere delusi se non spiazzati dallo spostamento in avanti delle soglie pensionistiche, attribuiscono un valore alla loro prolungata appartenenza ai ranghi della pubblica amministrazione. Pertanto le misure di risanamento radicale e sistematico dei vari comparti della Pubblica Amministrazione e dei servizi pubblici che pure sono indispensabili e che la “grande politica” deve assolutamente mettersi in grado di realizzare, non costituiscono la premessa indispensabile per una politica come quella qui proposta. La politica qui proposta ha l’obiettivo di produrre uno shock keynesiano all’economia con massicce assunzioni nel settore pubblico in quanto macro-settore del paese sottodimensionato rispetto alla domanda attuale. Nondimeno un risultato di questo shock potrebbe essere l’emersione di un clima organizzativo interno alla Pubblica Amministrazione più favorevole alla sua riforma complessiva e meno resistente al cambiamento. E per garantire l’obiettivo di accrescere l’occupazione qualificata nel settore pubblico è sufficiente una authority sostenuta da un’adeguata legislazione. L’istituzione di questa authority si configura perciò come il dispositivo appropriato per ottenere la fiducia dei contribuenti su due versanti: la fiducia che l’obiettivo del reclutamento di giovani con un’istruzione solida e di elevato livello verrà raggiunto; la fiducia che realizzando questo obiettivo si aumenterà nel breve periodo l’efficacia (anche se non l’efficienza) delle prestazioni dei comparti pubblici interessati. Quanto alle riforme per rendere più efficiente la Pubblica Amministrazione nel suo complesso vale che esse rimangono comunque indispensabili e che l’iniezione di giovani più istruiti e preparati certamente le favorirà.

una grave conseguenza delle politiche pseudo-liberiste degli ultimi anni è stata la rottura della solidarietà nazionale. La richiesta rivolta a chi può di contribuire attivamente alla lotta contro la disoccupazione, peraltro con un sacrificio limitato, può dare un significativo apporto alla sua ricostruzione.

Con l’affermarsi delle politiche liberiste negli ultimi decenni si sono diffuse narrazioni sulla società marcatamente anti-keynesiane, volte a esaltare gli effetti benefici di tutto ciò che è privato. Gli ingredienti basilari di queste narrazioni sono costanti. L’ambiente in cui si svolge la storia è quello competitivo e rischioso, quindi molto severo ma anche ricco di opportunità, imposto dalle “sfide” del mercato globalizzato. I protagonisti sono i singoli individui mossi dal desiderio di ricchezza e che hanno fede nel fatto di essere i soli responsabili del proprio destino personale. Sarebbe un errore apprezzare questi racconti come celebrazione della meritocrazia. Anzi la loro morale è che non si debba premiare il merito in quanto tale. Ciò che conta e va “giustamente” premiato è solo il risultato, quindi il successo individuale sul mercato guadagnato attraverso l’uso accorto (e fortunato) non solo delle personali capacità acquisite attraverso lo sforzo dell’apprendimento ma anche dei personali “doni della natura” (come la bellezza, l’aggressività del carattere, il coraggio, l’intuizione), nonché del patrimonio familiare e delle altre “rendite” in termini di capitale culturale e sociale che derivano dalla origine sociale. In un mondo libero dunque nessuna capacità va valutata se non per il successo. Nel corso degli ultimi trent’anni questa che si potrebbe definire “epica del successo” ha legittimato la grande crescita delle diseguaglianze sociali generata delle politiche liberiste stesse. Le narrazioni liberiste hanno così messo spavaldamente in discussione i modelli più egualitari di solidarietà nazionale fra cittadini che avevano sostenuto nel secondo dopoguerra il consolidamento delle democrazie occidentali e promosso il ruolo sociale dell’Europa comunitaria. Per contro negli anni Duemila, quando, sempre nell’ambito delle politiche liberiste, in molti paesi europei colpiti dalla crisi si sono innescati i circoli viziosi fra austerità, contrazione dei servizi e della domanda finale, crescita della disoccupazione e precarizzazione delle condizioni di vita, l’epica del successo ha diffuso, sopratutto fra i ceti medi, la ben nota “paura di cadere”. È ovvio il legame fra questa paura e la convinzione che la sola cosa che conta è il successo economico, concepito come dipendente esclusivamente dalle risorse private: nell’ambito di questa percezione soggettiva se tali risorse vengono compromesse dalla crisi l’esclusione sociale è inevitabile. In questa prospettiva i richiami alla solidarietà sono ulteriormente compromessi. Anzi la presenza di un discorso politico che si limiti a riproporre le concezioni pubbliche dell’equità e della giustizia tipiche del dopoguerra rischia di generare solo dissonanza cognitiva: il giusto in cui si chiede di credere non corrisponde al bene quotidiano. La richiesta formulata in questo programma a chi può di contribuire, con un costo limitato, alla lotta contro la disoccupazione dei giovani è in grado per diverse ragioni di favorire l’uscita da questo contesto privato di paura e riattivare circuiti di solidarietà collettiva. In primo luogo perché non è un appello astratto alla mobilitazione delle obbligazioni morali verso un “altro” svantaggiato. In effetti la disoccupazione è così pervasiva che quasi tutti possono dirsi direttamente o indirettamente colpiti da essa e perciò sensibili alla sua soluzione (vedi sezione Antefatto). In secondo luogo perché - dopo lunghi anni in cui vengono richiesti subito sacrifici certi in cambio di benefici che dipenderanno da una futura crescita - uno shock keynesiano che riduce drasticamente la disoccupazione (in particolare dei giovani istruiti) mostra in modo tangibile, qui e ora, che l’intervento pubblico è ancora in grado non solo di proteggere dai rischi di esclusione ma anche di sostenere progetti di mobilità sociale. In terzo luogo, perché questo shock si traduce nel breve periodo in un miglioramento dell’efficacia dei servizi (vedi l’approfondisci precedente). Per esempio con le nuove assunzioni si potrà aumentare l’offerta di asili nido, favorendo la risoluzione dei problemi di conciliazione fra lavoro per il mercato e lavoro di cura nelle famiglie in cui entrambi i genitori sono impegnati. Le famiglie di giovani genitori possono in tal modo verificare che non tutto il loro destino dipende dal successo nel mercato ma anzi che è il loro inserimento nel mercato a essere favorito dall’azione dei servizi pubblici, sostenuta - a modico prezzo - dalla solidarietà collettiva. Le stesse considerazioni potrebbero essere fatte per l’incremento dei servizi di assistenza domiciliare per gli anziani. E un discorso analogo potrà essere fatto per il potenziamento dell’insegnamento dell’inglese nella scuola primaria. Qui a essere sostenuta è la futura capacità di inserimento nel mercato di bambini e bambine: un caso ben tangibile di solidarietà intergenerazionale che non si riduce al taglio della spesa pubblica. Attraverso tutte queste misure si diffonde così l’esperienza di possibili e nuove sinergie fra risorse private e pubbliche. In ultimo occorre considerare che non è sempre vero che è la solidarietà a precedere l’azione collettiva. Come hanno mostrato molte analisi sui processi sociali, valori di solidarietà possono anche emergere endogenamente dalla partecipazione di più persone a un’azione coordinata, isolabile nello spazio e nel tempo, chiaramente finalizzata a uno scopo condiviso, anche se di carattere meramente strumentale. La partecipazione al finanziamento di uno shock keynesiano all’economia per ridurre sostanzialmente la disoccupazione giovanile proposta da questo programma ha queste caratteristiche.