News


[Archivio News]

Glossario


Aliquota fiscale marginale. Per evitare che chi guadagna di più possa ritrovarsi con un reddito inferiore a quello di chi guadagna di meno a causa delle imposte, la progressività delle imposte sul reddito (cioè il pagamento non solo di un ammontare superiore da parte di chi ha un reddito maggiore, ma anche di una percentuale del reddito maggiore) viene ottenuta facendo pagare aliquote crescenti sui diversi scaglioni di reddito; tali aliquote vengono definite marginali. Supponiamo per esempio che non si ricorra a questo sistema, e che l'aliquota sia del 10% per redditi fino a 20.000 € e del 20% per redditi superiori. In tal caso chi avesse un reddito di 20.000 € pagherebbe 2.000 € di imposta, il che farebbe scendere il suo reddito disponibile a 18.000 €; e chi avesse un reddito di 22.000 € ne pagherebbe 4.400, il che farebbe scendere il suo reddito disponibile a 17.800 €. Supponiamo invece che vi siano aliquote marginali crescenti: per esempio, il 10% per i primi 15.000 € di reddito, il 20% per i successivi 5.000 € e il 30% per la parte superiore ai 20.000 €. In tal caso il primo contribuente pagherebbe 15.000x0,1 + 5.000x0,2 = 2500 €; e il secondo 15.000x0,1 + 5000x0,2 + 2.000x0,3 = 3.100 €. Il primo si ritroverebbe con un reddito disponibile di 17.500 €, e il secondo di 18.900 €.

Aliquota fiscale media.L'importo che un contribuente paga come imposta in percentuale sul valore dell'oggetto dell'imposizione. Per esempio, se l'imposta sul reddito ha un'aliquota del 30%, chi avesse un reddito imponibile annuo di 50.000 € pagherebbe 15.000 € di imposta.

Aliquota fiscale progressiva.Si ritiene comunemente che sia giusto che al crescere del reddito cresca anche la percentuale di reddito che deve essere versata come imposta, che le aliquote siano cioè progressive: questo per esempio è il significato dell'art. 53 della Costituzione Italiana che stabilisce che "il sistema tributario è improntato a criteri di progressività".

Clark, John Maurice. (1884 – 1963). Economista statunitense, noto soprattutto per aver messo a punto il “modello dell’acceleratore degli investimenti”, o, più comunemente detto, “modello dell’acceleratore”.

Debito pubblico. Il debito pubblico rappresenta la sommatoria di tutti i disavanzi verificatisi nella storia del paese, che non siano stati rimborsati. Il debito pubblico dunque aumenta quanto si verifica un nuovo disavanzo e diminuisce quando si realizza un avanzo (cioè quando le entrate sono maggiori delle spese). Attualmente il debito pubblico dell’Italia è pari a circa 2.268 mila miliardi di euro, il che corrisponde a un rapporto debito/PIL del 122%. Sul totale del debito pubblico la Pubblica Amministrazione (principalmente lo Stato) paga gli interessi. Occorre distinguere il debito estero da quello interno. Il primo, dato dalla quantità di titoli posseduti da operatori esteri, implica che le spese per interessi trasferiscano risorse dal paese verso l’estero e quindi ha effetti recessivi che il secondo non ha. Il debito interno crea dunque meno problemi: purtuttavia, un debito molto alto (rispetto al PIL) può ingenerare sfiducia e panico tra i possessori di titoli di debito pubblico. In particolare, vi è il rischio di fughe di capitali verso l’estero e soprattutto di un rialzo degli interessi che lo Stato deve pagare, quale compenso del maggior rischio di default (insolvenza e dunque fallimento). Lo spread, cioè la differenza tra il livello degli interessi sulle ultime emissioni di titoli di debito pubblico e gli interessi delle ultime emissioni negli Stati più “solidi” (per l’UE la Germania), è considerato un indicatore (inverso, ovviamente) della fiducia dei mercati finanziari in tali titoli. In forza del “patto di stabilità” nell’ambito del trattato di Maastricht, i paesi UE si sono vincolati a controllare disavanzo e debito entro percentuali non superiori, rispettivamente, al 3% e al 60% del PIL. In pratica questo significa che uno Stato – se non in casi eccezionali e con il debito assenso delle autorità europee a ciò preposte – non può far registrare un disavanzo superiore al 3% del PIL e inoltre che tale disavanzo può essere raggiunto solo qualora non faccia superare al debito pubblico il tetto del 60% del PIL. L’Italia è stata ammessa a far parte dell’unione monetaria nonostante il suo debito pubblico fosse largamente superiore al 100% del PIL.

Disavanzo pubblico (o deficit pubblico). Il disavanzo pubblico consiste nella differenza negativa tra entrate e uscite, in un certo anno, della Pubblica Amministrazione. Questa, per continuare a fornire servizi pubblici e a svolgere le sue attività, deve quindi prendere a prestito il denaro necessario indebitandosi nei confronti del settore privato (nazionale), dell’estero (privato o pubblico) o della Banca Centrale. Nel primo e nel secondo caso, lo Stato vende ai privati (famiglie, imprese, banche) titoli di credito da esso stesso emessi. I sottoscrittori dei titoli forniscono allo Stato la disponibilità delle loro risorse per un tempo determinato in cambio del pagamento di un corrispettivo (interesse). L’emissione di titoli comporta l’onere del pagamento degli interessi (servizio del debito) e l’obbligo di rimborsare alla scadenza dei titoli il loro valore di emissione. In alternativa, lo Stato può finanziare il disavanzo chiedendo di acquistare titoli del debito pubblico alla Banca Centrale, la quale può accettare o meno. La Banca Centrale Europea non è autorizzata (per ora) ad acquistare titoli di debito pubblico direttamente dagli Stati al momento dell’emissione, ma può acquistarli sul mercato secondario dei titoli, cioè di quelli già in circolazione. Occorre distinguere tra il disavanzo primario, che è il disavanzo al netto dell’importo pagato a titolo di interessi sul debito pubblico, e gli interessi medesimi che vengono corrisposti sullo stock esistente di debito. L’Italia, da alcuni anni, ha un attivo primario, che significa che, al netto degli interessi sul debito pubblico, le entrate superano le spese.

Domanda interna. L’insieme dei beni, di consumo e di investimento, e dei servizi, privati e pubblici, che viene richiesto dal mercato interno. La Domanda interna è determinata dal livello del reddito. La domanda di beni pubblici è convenzionalmente calcolata di pari importo al costo di quelli prodotti. La Domanda interna si differenzia dalla domanda aggregata, o effettiva, perché questa comprende anche i beni prodotti all’interno della nazione ma domandati all’estero, mentre esclude la domanda interna per beni importati. La domanda aggregata è considerata, come ordine di grandezza, pari al reddito nazionale.

Friedman, Milton. (1912 – 2006). Economista statunitense, premio Nobel per l’economia nel 1976. Principale esponente della scuola di Chicago e fondatore della scuola monetarista. Dai principi e dai postulati di quest’ultima si è poi evoluta la scuola neo-liberista. Milton Friedman riteneva che i disequilibri nel sistema economico fossero prodotti da errate manovre di politica monetaria, mentre gli interventi pubblici potevano avere effetti solo di brevissimo periodo, e cioè il tempo necessario perché gli operatori si rendessero conto della situazione e riaggiustassero le loro scelte nell’economia reale. Riteneva pertanto che produzione e disoccupazione si collocassero stabilmente sui loro valori naturali, e cioè quelli determinati da stock di capitale, tecnologie, forza lavoro e specializzazione di quest’ultima, rendendo vane la manovre di politica economica. Negli ultimi anni di vita ammise però che il tempo necessario al ritorno al PIL naturale potesse arrivare fino a 3 anni.

Harrod, Roy Forbes. (1900 – 1978). Economista britannico, noto per aver elaborato il “modello di Harrod (e Domar)”. Esso combina il modello dell’acceleratore con quello del moltiplicatore e mostra come ci sia un solo tasso di crescita del sistema economico che garantisca l’equilibrio del sistema stesso, dato dal rapporto tra la propensione al risparmio media e il rapporto capitale/prodotto medio. Tale modello mostra inoltre come uno scostamento da tale tasso di crescita tenda ad aggravarsi nel tempo invece di ridursi: l’equilibrio è pertanto estremamente instabile. Se ne può dedurre che in caso di squilibrio siano necessari interventi di politica economica da parte del settore pubblico, in senso anti-ciclico.

Keynes, John Maynard. (1983 – 1946). Economista britannico, probabilmente il più importante economista del '900. È ritenuto il fondatore della macroeconomia e l’insieme delle sue teorie fu detto “rivoluzione keynesiana”, per il loro carattere innovativo rispetto all’imperante teoria neo-classica. In particolare, sostenne la necessità dell’intervento pubblico nell’economia, in presenza di crisi come quella in atto negli anni ’30 nelle società capitaliste.

Il 24 ottobre 1929, il giovedì nero, segna una svolta nella storia dell’economia così come del pensiero economico. La grande crisi dimostrò la fondatezza delle critiche di Keynes ai postulati dell’economia neo-classica, tanto che nel giro di un quindicennio “l’economia ufficiale” si fondò quasi unicamente sul suo pensiero e su quello dei seguaci della sua scuola. Il suo ragionamento parte dalla considerazione che nessun imprenditore vorrà produrre se pensa che parte delle sue merci rimarranno invendute: egli calibrerà la sua produzione di beni, e dunque l’utilizzazione di capitale e lavoro, sulla domanda che il mercato rivolge ai beni che egli produce o sul livello della domanda che egli si aspetta per il futuro. Il livello della domanda aggregata assume il ruolo di cardine del funzionamento dell’economia, determinando le quantità prodotte e il livello dell’occupazione: alle sue variazioni, infatti, le imprese rispondono variando rapidamente le quantità offerte molto più che non i prezzi; ciò è possibile, in riduzione, diminuendo l’occupazione e l’utilizzazione dei macchinari, e, in espansione, assumendo nuovi lavoratori e aumentando l’utilizzo del fattore capitale già a disposizione delle imprese (che normalmente possiedono capacità produttive inutilizzate). Accanto alla domanda aggregata, un ruolo altrettanto cruciale è giocato dalle aspettative sul suo evolversi: esse determinano le decisioni degli imprenditori di realizzare investimenti, che sono il motore dell’economia, sia per la loro capacità di espandere la produzione nel lungo periodo (aspetto questo poco enfatizzato da Keynes) sia per la loro caratteristica di essere una componente della domanda aggregata e di determinarne a loro volta il livello in misura amplificata, via moltiplicatore. Le decisioni di investire, tuttavia, sono limitate dall’incertezza che pervade il sistema economico, sia per quanto concerne il presente, che non è conoscibile appieno, sia, soprattutto, il futuro che è il tempo nel quale si proiettano gli effetti degli investimenti. Il comportamento degli imprenditori è determinato pertanto più dal loro istinto (animal spirits) che non da un calcolo razionale dei rischi collegati agli investimenti e dei loro rendimenti attesi. In attesa di chiarirsi le idee su come evolverà la situazione, gli agenti economici preferiscono detenere moneta, bene non rischioso per eccellenza. Ma ciò porta a una caduta della domanda di beni, sia di consumo sia d’investimento, e del lavoro necessario a produrli. L’incertezza determina dunque recessione economica. In una situazione di questo genere il mercato si può anche stabilizzare: gli imprenditori riducono l’offerta effettiva al livello della domanda effettiva e dunque il mercato è in equilibrio, ma si tratta di un equilibrio di sotto-occupazione. Trattandosi di una situazione di equilibrio, il sistema non trova in sé i meccanismi per uscirne. Alla recessione determinata dall’incertezza e dagli equilibri di sotto-occupazione, può porre rimedio l’intervento pubblico tramite gli strumenti della politica economica, e in particolare la spesa pubblica. Quest’ultima, infatti, è in grado di attivare il meccanismo del moltiplicatore, e dunque di sostenere la domanda aggregata, tanto quanto gli investimenti privati.

Modello dell’acceleratore. Forma abbreviata per indicare il “modello dell’acceleratore degli investimenti”. Esso afferma che il livello degli investimenti privati è determinato dalla variazione della domanda aggregata, secondo un coefficiente che può essere determinato dal rapporto capitale/prodotto o dalla propensione degli imprenditori di adeguare lo stock di capitale al livello della domanda aggregata. Il Modello dell'acceleratore è particolarmente importante in quanto mostra come la domanda nel mercato dei capitali (necessari agli investimenti), a differenza degli altri mercati, non è determinata, in relazione inversa, dal prezzo (in questo caso il tasso di interesse), come sostenuto dalle teorie neo-classiche, ma, in massima parte, in relazione diretta dalla domanda dei beni che il capitale concorre a produrre. Ciò vale, in buona parte, anche per il mercato del lavoro, cioè dell’altro fattore produttivo: la domanda di lavoro è infatti determinata più dal livello della domanda aggregata che non dal livello del salario.

Moltiplicatore keynesiano. Il Moltiplicatore keynesiano è un modello macroeconomico che mostra come varia il reddito nazionale al variare degli investimenti privati e/o della spesa pubblica. Inizialmente il modello del moltiplicatore fu elaborato dall’economista britannico Richard Ferdinand Kahn, ma fu Keynes a renderlo celebre mostrando le sue potenzialità dinamiche e il ruolo che la spesa pubblica poteva avere come sostegno del reddito, specie in periodi di recessione. Il moltiplicatore keynesiano, nella sua forma più semplice, è dato da m = 1/(1-c), dove c è la propensione marginale al consumo. Pertanto, se c fosse pari a 0,8, il moltiplicatore sarebbe pari a 5. Essendo la formula del modello che lega il reddito agli investimenti e alla spesa pubblica Y = m (I + G), dove Y = reddito nazionale, I = investimenti privati e G = spesa pubblica, si vede come aumenti della spesa pubblica (al pari degli investimenti privati) si riflettano moltiplicati (per 5 nel nostro esempio) sul livello del reddito. La formula è stata in seguito resa più sofisticata, inserendo il ruolo (restrittivo) sulla domanda aggregata delle imposte e il ruolo (espansivo) del saldo della bilancia dei conti con l’estero (export – import).

Neo-keynesiano. Aggettivo che indica appartenenza alla scuola di pensiero del neo-keynesismo, ovvero la nuova macroeconomia keynesiana. Questa accoglie l’ipotesi neo-classica delle aspettative razionali di famiglie e imprese, ma nega che il mercato abbia sempre e comunque la capacità di riportarsi in equilibrio – e dunque anche in piena occupazione – in tempi brevi. Questo perché prezzi e salari tendono a essere “vischiosi”, cioè a cambiare con lentezza e difficoltà. Pertanto i neo-keynesiani ritengono, in linea con il pensiero di Keynes, che la disoccupazione e la recessione possano essere sconfitte adottando politiche economiche espansive, usando la leva fiscale (cioè di bilancio pubblico, aumentando la spesa pubblica e/o riducendo le imposte) e/o monetaria (pilotata dalle banche centrali, come l’attuale quantitative easing, cioè l’espansione della quantità di moneta in circolazione, realizzata anni fa in USA e recentemente, in misura minore, anche in Europa).

Neo-liberismo. Sebbene il termine risalga alla prima metà del ‘900 per indicare tutt’altro, oggi per Neo-liberismo (o neoliberismo) si intende un insieme di concezioni politiche ed economiche che esaltano il ruolo del libero mercato e conseguentemente implicano una drastica riduzione del ruolo dello Stato nell’economia, il tutto nell’ambito di un’economia globalizzata. I neo-liberisti postulano che la perfetta informazione degli operatori economici, coniugata con un sistema di libera concorrenza, faccia sì che l’economia si trovi sempre in equilibrio ai livelli “naturali” di occupazione e di produzione. Si ritiene che i “padri spirituali” del neo-liberismo siano gli economisti della scuola austriaca o scuola di Vienna (von Hayec e von Mises ne sono i principali esponenti), mentre il vero e proprio iniziatore della corrente di pensiero neo-liberista può essere considerato Milton Friedman, fondatore della scuola monetarista o scuola di Chicago. La maggior parte degli economisti appartenenti alla scuola di Chicago (Robert Lucas, Eugene Fama, Gary Becker, ecc.) con molti altri di diversa origine (Edward Prescott, Finn Kidland, ecc.) estremizzò i fondamenti del pensiero di Friedman asserendo che il libero mercato fosse sempre in equilibrio (o meglio, in un primo periodo si ammetteva la possibilità di disequilibrio, ma comunque si affermava che il sistema economico fosse in grado di recuperare la posizione di equilibrio – perduta per erronee valutazioni – in tempi brevissimi). L’intervento pubblico in economia, pertanto non può che essere dannoso, in quanto verrebbe a distorcere questo meccanismo. Oggi la maggior parte degli economisti, soprattutto statunitensi, ritiene che l’ideologia liberista, imperante per quasi un trentennio (1980 – 2008), sia alla base del crack della finanza e della crisi dell’economia reale, iniziati nel 2007. Ciò in quanto da un lato la maggiore concentrazione del reddito in poche mani (per via della riduzione del ruolo redistributivo di imposte e spesa pubblica) provoca un eccessivo rialzo del valore dei beni patrimoniali (mobili e immobili) e un calo della domanda di beni di consumo e, dall’altro, la globalizzazione riduce l’occupazione in molti settori “tradizionali” dell’economia ad alto tasso di occupazione (tessile, siderurgico, chimico, metalmeccanico, ecc.).

PIL (Prodotto Interno Lordo). Il PIL rappresenta il valore monetario (dunque per l’Italia in Euro) di tutte le attività economiche realizzate all’interno di uno Stato nel corso di un certo periodo di tempo (normalmente un anno). Esso misura il valore della produzione privata e pubblica, cioè il valore aggiunto nazionale. Si tratta di una “grandezza flusso” e, semplificando un po’, può essere definito come “quanto hanno guadagnato cittadini e imprese – sotto forma di salari, profitti e rendite (principalmente interessi e affitti) – nel corso di un anno”. Nel 2014 il PIL nominale in Italia è stato pari a circa € 1.847 miliardi. Dividendo il PIL per il numero di abitanti si ha il PIL pro-capite, che è stato pari a poco più di 30.000 euro. Il PIL nominale misura il valore della produzione ai prezzi correnti, cioè quelli del periodo in cui è stata ottenuta; il PIL reale si ottiene dividendo il PIL nominale per l’indice generale dei prezzi. Il reddito nazionale è, come ordine di grandezza, pari al PIL, mentre il reddito disponibile delle famiglie implica la sottrazione delle imposte dirette pagate e dei contributi e l’aggiunta dei trasferimenti dello Stato alle famiglie (pensioni e sussidi).

Propensione al consumo. La Propensione al consumo è data dal rapporto tra il consumo e il reddito. Essa può essere calcolata per una singola unità di consumo (famiglia) o per un’economia nel suo insieme. Nel 2014 la propensione al consumo delle famiglie italiane è stata pari a 0,914, il che significa che la famiglie hanno consumato, in media, il 91,4% del loro reddito annuale. La propensione media al consumo è data dal consumo totale di un certo periodo (per esempio un anno) e il reddito del medesimo periodo; la propensione marginale al consumo è data dal consumo aggiuntivo determinato da un aumento di reddito (per esempio, di quanto le famiglie che hanno percepito il bonus di 80 euro hanno aumentato i loro consumo: se avessero consumato 72 euro in più la propensione marginale sarebbe pari a 72/80 = 0,9 e cioè il 90%. Ne consegue che il risparmio sarebbe stato di 8 euro e dunque la “propensione marginale al risparmio” sarebbe stata pari a 0,1 e cioè del 10%). Propensione marginale e propensione media al consumo tendono a essere più basse per le famiglie con redditi più alti: i ricchi, ovviamente, risparmiano più dei poveri; ciò spiega perché, quando la distribuzione del reddito tende a concentrarsi in misura crescente a favore delle categorie più abbienti, la domanda interna tende a diminuire, come si è verificato in Italia nell’ultimo decennio.

Roosevelt, Franklin Delano. (1882 – 1945). 32° Presidente degli USA, è stato eletto quattro volte (1932 – 36 – 40 – 44), rimanendo in carica fino alla morte. Eletto per la prima volta tre anni dopo lo scoppio della grande crisi del 29, realizzò un vasto e radicale programma di riforme economiche e sociali conosciuto con il nome (detto new deal) basato in buona misura sulla “rivoluzionaria” dottrina dei Keynes. Le principali riforme furono il Social Security Act (assistenza sociale e indennità di disoccupazione, malattia e vecchiaia) e l'Agenzia per il controllo del mercato azionario (SEC). Guidò gli Stati Uniti durante la 2° guerra mondiale.

Samuelson, Paul Anthony. (1915 – 2009). Economista statunitense, premio Nobel per l’economia nel 1970. Autore (nell’ambito di una produzione scientifica sconfinata) con J. R. Hicks, di “modelli di ciclo endogeno” che, combinando il modello del moltiplicatore con quello dell’acceleratore, ne mostrano le sinergie. L’aumento della spesa pubblica porta a un aumento del reddito e dunque della domanda interna, via moltiplicatore; l’aumento della domanda determina nuovi investimenti, via acceleratore; l’aumento degli investimenti, a sua volta, porta a un’ulteriore crescita del reddito – via moltiplicatore – e così via, con un meccanismo auto-propulsivo. Il limite all’espansione è dato dal raggiungimento del PIL di piena occupazione dei fattori produttivi, lavoro e capitale. Il limite alla recessione è dato dall’avversione degli individui a ridurre i propri consumi e dunque dalla loro disponibilità ad attingere alla ricchezza accumulata grazie ai risparmi passati, se il reddito corrente non è sufficiente a mantenere il proprio tenore di vita. Il consumo è dunque determinato non solo dal reddito, ma anche dal patrimonio.

Scuola di Chicago. Nel Dipartimento di economia dell’Università di Chicago fu fondata la scuola monetarista ed esso fu luogo di riferimento anche per la scuola neo-liberista che ne derivò. Pur in presenza di posizioni diverse tra i principali esponenti (Milton Friedman, George Stigler, Robert Lucas, Eugene Fama e molti altri) non pochi assiomi furono da tutti condivisi: principalmente quelli delle aspettative razionali e della sostanziale perfetta concorrenzialità di tutti i mercati, dalla quale deriva la capacità del sistema economico di essere sempre in equilibrio o comunque di recuperarlo in tempi brevissimi. Un gruppo di giovani docenti cileni della Scuola di Chicago, detti Chicago boys, si recò in Cile dopo il colpo di stato per collaborare con la Junta del generale Pinochet per costruire un’economia liberista. Dopo la crisi iniziata nel 2007 e tuttora in corso, Richard Posner, esponente di primo piano dell’analisi economica del diritto dell’Università di Chicago, ha sostenuto che “Keynes ha vinto e la Scuola di Chicago ha perso”.

Socialdemocrazia. La Socialdemocrazia è un sistema politico con forti implicazioni economiche. Essa ha origine dal pensiero marxista (nella sua versione revisionista) ponendo il lavoro (e le sue rappresentanze) al centro dell’economia e della società, ma affida alle forze di mercato l’allocazione delle risorse salvo redistribuirle tramite massicci prelievi fiscali e imponenti spese pubbliche per infrastrutture e welfare (stato sociale). Quest’ultimo non potrà essere messo in discussione dagli alti e bassi dell’economia di mercato. Pur essendo nata in Germania (con Berntsein e Kautsky), la socialdemocrazia si è affermata principalmente nei paesi scandinavi e soprattutto in Svezia, dove ha governato quasi ininterrottamente negli ultimi 80 anni, avendo in Olof Palme l’esponente più in vista. Le spese per il welfare sono caratteristiche delle socialdemocrazie ma non necessariamente delle politiche economiche keynesiane, che vedono nell’intervento pubblico principalmente l’obiettivo di sostenere il sistema economico, e nell’ambito di questo danno la preferenza alle opere pubbliche. Ma anche tra il tipo di società tratteggiata dal sociologo ed economista britannico William Beveridge (considerato il padre del welfare-state) e quello perseguito dalle socialdemocrazie vi è una differenza, consistente principalmente nel fatto che queste ultime sono connotate dalla centralità del lavoro, mentre per Beveridge – prima membro e poi leader dei Liberals nella House of Lords – è centrale la società nel suo complesso.

Tasso di disoccupazione. Il Tasso di disoccupazione è calcolato dividendo il numero di disoccupati per la forza lavoro. Sono considerati disoccupati tutti coloro che, pur desiderando di lavorare, non hanno un’occupazione. La più recente metodologia statistica definisce come “occupato” un lavoratore che abbia lavorato per almeno un’ora durante la settimana precedente la rilevazione. La forza lavoro è data dalla somma degli occupati e dei disoccupati. Secondo le più recenti rilevazioni, in Italia il numero di disoccupati è pari a 3 milioni e 285 mila unità, il numero degli occupati è pari a 22 milioni 581 mila. Dunque la forza lavoro è di 25 milioni 866 mila unità e il tasso di disoccupazione è pari al 12,7%. In realtà questo valore sottostima il problema sociale perché gli “scoraggiati” che hanno cercato lavoro ma ora non lo cercano più sono esclusi dal numero dei disoccupati e della forza lavoro. Il loro numero (3.388.000) sarebbe, secondo una ricerca del 2013 (l’ultima disponibile) dell’Eurostat, addirittura superiore a quello dei disoccupati ufficiali.