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FAQ

Perché non un’imposta patrimoniale sugli immobili?

La nostra scelta di non tassare gli immobili si basa su alcune considerazioni;[Leggi]
la più importante è che l’imposta patrimoniale è recessiva: i contribuenti che vedano tassato un loro immobile prendono i soldi necessari a pagare tale tassa non da un pezzetto dell’immobile stesso ma dal loro reddito, distraendo così risorse dal loro bilancio familiare quotidiano, e quindi distraendo risorse dalle proprie spese e quindi dal PIL nazionale (sezione dedicata al moltiplicatore).
Una seconda considerazione riguarda la potenziale iniquità di una manovra sugli immobili: una persona che abbia ereditato una casa del valore di 450.000 Euro dovrebbe pagare (con un’aliquota del 5,82 per mille) 2.620 Euro, il che può essere un salasso: potrebbe perfino non averli e doversi dunque indebitare per pagare l’imposta; mentre se ha 450.000 Euro in banca probabilmente il peso di tale tassazione sarà più blando se dovrà pagare 2.620 (cioè 400.000 meno l’esenzione sui primi 143.000 che fa 257.000 e l’applicazione delle aliquote progressive che fa 2.620, vedi tabella), in quanto gli rimarranno pur sempre 397.380.
Una terza considerazione riguarda le modalità di esazione di una tassa patrimoniale sugli immobili; per il contribuente i costi di esazione di un’imposta sulla ricchezza immobiliare sono elevati (deve conoscere i dati catastali e deve fare un versamento) mentre quelli sulla ricchezza finanziaria sono nulli, essendo il prelievo fatto in automatico sul conto corrente.
Un altro motivo che ci induce a non proporre la tassazione sugli immobili è che il Catasto Urbano non è aggiornato da molti anni nella maggior parte dei comuni italiani, e ciò rende impossibile l’attuazione di questa misura.
E questa situazione di arretratezza si riprodurrà ancora per vari anni (N.B. anche l’aggiornamento del Catasto è un progetto della P.A. che l’assunzione di un congruo numero di geometri potrebbe avviare a soluzione).

Così però non si ottiene solo di aggiungere fannulloni a fannulloni?

No, sebbene in effetti gli sprechi e le inefficienze negli enti pubblici siano sotto gli occhi di tutti.
[Leggi]
Ma allora, in assenza di un loro radicale risanamento, come può il contribuente accettare una tale proposta e ancor più acconsentire a una tassazione aggiuntiva, seppure di moderata entità, per sostenere il reclutamento di nuovo personale? Senza il risanamento della Pubblica Amministrazione un cittadino responsabile dovrebbe anzi rifiutarsi di spendere un Euro in più per essa, tanto più con una tassazione aggiuntiva: pena aggiungere sprechi a sprechi e spese a spese, con conseguenze insostenibili sulla crescita economica; creando, insomma, solo un ulteriore ingente bacino di fannulloni imboscati nel settore pubblico.
Stando così le cose, sarebbe ingenuo e irrealistico anche l’affidare a un’agenzia tecnica esterna il compito di garantire il coordinamento fra i nuovi programmi di reclutamento di pubblici dipendenti e l’attivazione di un vastissimo complesso di misure volte a rendere efficienti le prestazioni della Pubblica Amministrazione, a debellare l’assenteismo e a licenziare il personale superfluo.
In realtà non è così: anzi, vale il contrario.
Per esempio, con l’immissione di giovani istruiti, si accresce la quota del personale che, proprio perché più preparato, è meno timoroso delle novità e più resistente allo stress che lo sforzo di adattamento a esse comporta.
Inoltre, sempre a titolo di esempio, va notato che una consistente iniezione di giovani aumenta il numero dei dipendenti che, anziché essere delusi se non spiazzati dallo spostamento in avanti delle soglie pensionistiche, attribuiscono un valore positivo alla loro prolungata appartenenza ai ranghi della pubblica amministrazione.
Cresce dunque la quota di chi valuta la propria situazione in una prospettiva temporale più lunga ed è perciò più sensibile agli incentivi anti-imboscamento volti a mantenere nel tempo la lealtà e l’impegno attivo verso i compiti da eseguire, nonché personalmente più favorevole a quei miglioramenti dell’efficienza organizzativa che aumentano nel tempo la qualificazione delle mansioni.

Prima non bisognerebbe “fare i compiti” e tagliare il personale inadeguato?

La logica che pone come condizione preliminare la razionalizzazione della macchina pubblica attraverso la riduzione del personale può comportare gravi effetti perversi.[Leggi]
Nell’attuale situazione di sottodimensionamento dei pubblici dipendenti, un ulteriore impoverimento del personale avrà l’effetto di ridurre immediatamente i servizi offerti, subito dopo la domanda di beni, quindi il gettito fiscale; la conseguente crescita del debito pubblico rispetto al PIL richiederà a questo punto nuove politiche di austerità.
Di fronte agli effetti perversi di queste politiche a forte impronta liberista che partono dall’austerità, il programma qui presentato propone invece una politica espansiva, compatibile con i vincoli UE, volta a realizzare una grande crescita dell’occupazione nei comparti pubblici, cui seguirà la crescita della domanda di beni di consumo, della domanda di beni di investimento, della occupazione industriale, del gettito fiscale.

Cosa si intende quando scriviamo che in tre anni la spesa per il milione di assunti si sostiene da sola senza bisogno del proseguimento del piano di tassazione d’emergenza sulle rendite finanziarie?

Il risultato dell’assunzione di 1 milione di lavoratori è un effetto moltiplicativo sulla crescita del reddito nazionale che è dato dal valore del moltiplicatore.[Leggi]
Secondo i nostri calcoli, considerando anche i tempi di diffusione dei suoi effetti moltiplicativi, un’iniezione di 20 mld. all’anno per tre anni consecutivi (considerando una propensione al consumo dei giovani uguale a 0,9, ridotta a 0,5 per effetto delle importazioni e dei minori consumi delle famiglie presso cui hanno vissuto fino all’inizio del lavoro) avrà i seguenti effetti: 20 mld. alla fine del primo anno, 50 alla fine del secondo, 85 alla fine del terzo, 103 alla fine del quarto, 111 alla fine del quinto, e via via riducendosi nel tempo il valore dell’incremento.
In termini di crescita sul PIL significa un aumento di 1,3 punti percentuali dopo un anno, 2,8 dopo due anni e 5,5 dopo tre anni.
Nel nostro modello non si fanno previsioni di gettito fiscale supplementare, ma si guarda solo al PIL aggiuntivo generato dall’immissione di nuova forza lavoro.
Naturalmente il PIL aggiuntivo genererà gettito supplementare: in Italia il gettito fiscale complessivo, infatti, è pari a circa il 27% del PIL e quindi al terzo anno si avrà un incremento del gettito fiscale in senso stretto (esclusi cioè gli oneri previdenziali) di circa 23 mld, ovvero una cifra superiore al costo degli stipendi valutato in 20 mld.
Un diverso discorso, invece, deve essere fatto per quanto riguarda gli oneri previdenziali.
I 20 miliardi necessari per le assunzioni dei nuovi lavoratori, infatti, devono comprendere anche gli oneri previdenziali, che in quanto tali vanno all’Inps e generano un PIL inferiore essendo assimilabili ai risparmi conservati in banca e che la banca immette a sua volta nell’economia sotto forma di investimenti.

La P.A. è un carrozzone, la politica dei tagli è quindi sensata per ridurre le inefficienze.
Perché sostenere la necessità invece di nuove assunzioni?

L’obiettivo è che i lavoratori della P.A. riescano concretamente a fornire ai cittadini i servizi cui sono deputati.
Licenziare sic et simpliciter può dare una certa soddisfazione[Leggi]
a noi contribuenti esasperati, ma riduce immediatamente i servizi offerti, poi subito dopo riduce la domanda di beni, il gettito fiscale, e fa crescere il debito pubblico rispetto al PIL; dopodiché ciò necessariamente verrà affrontato con nuove politiche di austerità.
Ovviamente tutti noi abbiamo un enorme bagaglio di penosi esempi di inefficienza della P.A. E tuttavia anche uno studio della Corte dei conti, di alcuni anni fa, rilevava il notevole sottodimensionamento della nostra P.A. rispetto agli altri paesi a noi simili e il suo costo nettamente inferiore.
Se si aggiunge il sistema legislativo elefantiaco e la bassa scolarità media dei pubblici dipendenti italiani, ci sono tutti gli ingredienti per considerare non plausibile la proposta di rendere la P.A. efficiente e utile al paese riducendola sempre più.

La P.A. in Italia soffre il confronto con gli altri paesi europei circa la scolarità dei suoi addetti?

Sì. Per fare un esempio, a fronte di oltre tre milioni di dipendenti pubblici laureati nel[Leggi]
Regno Unito, i dipendenti pubblici italiani laureati sono soltanto un milione.
Anche i dati ARAN ci dicono che la scolarità dei dipendenti pubblici italiani è particolarmente bassa e solo il 30% è in possesso di laurea (dati ARAN 2012).
tabella5

Le politiche di Keynes avevano senso nella sua epoca perché si operava in contesti in cui il problema del debito pubblico non era rilevante

Certo al tempo di Keynes non c’era l’euro, c’erano le banche centrali in Europa, poi, se non bastava, si poteva anche scatenare la II Guerra Mondiale.[Leggi]
E si può aggiungere anche che i disoccupati di cui si è interessato Keynes erano prevalentemente a bassa scolarità, mentre nel nostro caso abbiamo una sofferenza gravissima fra laureati e diplomati.
E le grandi opere della politica keynesiana classica erano legate alla infrastrutturazione necessaria di un paese ancora sotto-dotato: oggi che cosa proponiamo di fare? Certo, c’è un enorme patrimonio pubblico (un bene comune) da restaurare e tenere in manutenzione, ma i vincoli del pareggio di bilancio e del patto di stabilità non permettono interventi massicci simultanei che producano lo shock keynesiano.
E comunque migliaia di piccoli interventi necessitano di una burocrazia efficace, preparata, con degli standard paragonabili agli altri paesi.
Genova, con il blocco dei fondi stanziati dopo la precedente alluvione, è solo uno degli ultimi esempi dei problemi collegati alle inefficienze del sistema burocratico.
Il circolo keynesiano classico in sintesi era questo: investimenti in opere pubbliche stampando moneta e ricorrendo al debito pubblico, crescita della domanda di beni di investimento, crescita dell’occupazione, crescita della domanda di beni di consumo, crescita dell’occupazione industriale nel settore dei beni di consumo, crescita del gettito fiscale con conseguente ripianamento del debito pregresso, e via di seguito.
Oggi non possiamo fare investimenti in deroga alla regola aurea del 3% (che, oltretutto, per una semplice questione aritmetica, diventa sempre più piccolo in termini assoluti, visto che il PIL decresce), né è possibile far stampare moneta alla Banca d’Italia.
Lo fa la BCE che fornisce a interesse vicinissimo allo zero i soldi alle banche private che poi li prestano agli Stati facendosi pagare interessi significativamente più alti.
La cosa ha evitato il fallimento di moltissime banche e il default di alcuni Stati: opera senz’altro meritoria ma di nessun effetto sul rilancio dell’economia reale.
È per questo che abbiamo pensato a una politica di stampo keynesiano, pienamente compatibile con i vincoli UE inesistenti ai tempi di Keynes, che dovrebbe avviare questo circolo virtuoso: grande crescita dell’occupazione nella P.A., crescita della domanda beni di consumo, crescita della domanda beni di investimento, crescita dell’occupazione industriale, crescita del gettito fiscale.

La PA è un carrozzone in cui non è valutata la produttività e i cui costi sono resi crescenti dalla presenza di avanzamenti di carriera automatici dati dagli scatti di anzianità.

Gli scatti di anzianità nel pubblico impiego non esistono più da molto tempo[Leggi]
e i contratti sono congelati da un grande numero di anni.
E se i nostri dipendenti pubblici, i nostri insegnanti, ecc. sono i meno pagati d’Europa, forse è veramente un falso problema quello del meccanismo automatico che avrebbe fatto esplodere i costi del lavoro pubblico in modo incontrollato.

Perché puntare ancora sull’istruzione e sui servizi primari e non invece su investimenti nella tecnologia in generale e, in particolare, nelle tecnologie verdi?

Una società per svilupparsi (parlando di sviluppo e non di crescita, non a caso) deve farlo in modo armonico: investire nell’università lasciando il resto della scuola nel degrado[Leggi]
sarebbe un inutile spreco, perché gli studenti ci arriverebbero sempre più disastrati; costringere i lavoratori a 12 ore di coda a un pronto-soccorso è un costo per la collettività, e via dicendo.
Anche noi abbiamo pensato subito ad ambiente e tecnologie green.
Ma quella è una politica di grande respiro inquadrabile nella assoluta necessità di cambiare per sempre il modello di sviluppo, ovvero il tipo di sviluppo che ha creato quelli che possiamo definire come “paesi a basso reddito”, ha approfondito le disuguaglianze fra paesi e fra gruppi sociali, ha creato un crescente numero di poveri autoctoni.
Questo esula dai compiti di un sasso nello stagno (come questa proposta è) che abbia la possibilità con la sua onda di innescare un’inversione di tendenza nel ciclo economico.
Noi, piccolo gruppo, non stiamo fondando un partito politico con l’onere di disegnare il mondo del futuro, noi abbiamo provato a immaginare una politica realistica, fondata su dati oggettivi e verificabili, del tutto compatibile con i vincoli europei, che offra un’alternativa possibile all’attuale circolo vizioso voluto dalla troika.
L’insegnante di sostegno costa il suo stipendio, un ricercatore tecnologico ha bisogno di laboratori, attrezzature, grandi finanziamenti alla ricerca.
E tuttavia l’insegnante di sostegno è anch’egli indispensabile in un paese civile (anche in termini economici: consente alle mamme di lavorare, rende autosufficienti i cittadini disabili, ecc.).
Gli investimenti green sono assolutamente imprescindibili, come un giorno sì e uno no si scrive su giornali e riviste scientifiche.
È un problema noto, condiviso da molti, ma che richiede interventi fuori dalla portata della nostra proposta.
In attesa di poter cambiare il mondo proponiamo qualcosa di fattibile subito, anche in presenza dei grandi e micidiali intrecci tra interessi e vincoli globali.

Il personale neoassunto ha bisogno, a seconda dei casi, di uffici, macchinari, e preparazione; non si rischia di assumere personale poi di fatto poco utilizzabile?

Il personale va assunto l à dove ci sono già adesso carenze tali per cui[Leggi]
l’aggiunta di nuovi addetti può aumentare l’efficienza dell’ente anche in presenza di costi di investimento molto bassi o nulli. Facciamo degli esempi: molti macchinari elettromedicali lavorano solo mezza giornata perché manca il personale necessario a tenerli in funzione su più turni; i musei chiudono presto al pomeriggio per lo stesso motivo; un maggior numero di cancellieri aumenterebbe la velocità della giustizia civile al costo forse di qualche nuovo PC, e così via. Più in generale, la necessità di investimenti poco costosi (o nulli) dovrebbe essere uno dei criteri sulla base dei quali l’ente a ciò preposto dovrebbe valutare i progetti. Quanto alla formazione, un laureato in (per esempio) giurisprudenza potrebbe essere qualificato in tempi brevi per la mansione di cancelliere di tribunale, un laureato in psicologia per la mansione di insegnante di appoggio, e così via. Come spiegato altrove in questo sito, un altro dei criteri di valutazione dei progetti dovrebbe essere proprio la presenza di giovani qualificabili on the job per la mansione richiesta.

Prima la riforma della P.A. e poi le assunzioni?

È indubbio che la riforma della P.A. sia assolutamente necessaria; e in più parti di questo sito viene segnalato ciò.[Leggi]
A confutare, però, l’assunto della domanda vi sono almeno due fattori che non possiamo dimenticare. Il sottodimensionamento della P.A. italiana pone un serio problema al riformatore; è difficile, se non impossibile, a fronte di una mole di lavoro superiore alla capacità produttiva dei suoi dipendenti tracciare linee guida di una riforma: un dipendente, infatti, non potrà mai svolgere da solo la mole di lavoro di due o più dipendenti.
Riformare la P.A. deve anche significare immaginare una P.A. differente, in linea con i tempi odierni e le potenzialità che la tecnologia, soprattutto quella digitale, offre a supporto del lavoro; ma per fare questo servono le esperienze di coloro che hanno vissuto dall’interno la P.A. come anche la carica innovativa dei giovani qualificati neoassunti. Pensare di immaginare una nuova P.A. tralasciando il secondo fattore, quello apportato dai neo assunti, è anacronistico.
La risposta, quindi, al quesito iniziale è: no, è anzi preferibile l’esatto contrario.

Perché prima le assunzioni e poi la riforma della P.A.?

Perché vi è un problema di tempi: riformare la P.A. significa anche immaginare[Leggi]
una P.A. differente e in linea con i tempi odierni e le potenzialità che la tecnologia, soprattutto quella digitale, offre a supporto del lavoro; e questo è un compito che necessita di tempi lunghi e di continue verifiche empiriche sulle riforme effettuate, per aggiustare il tiro e giungere a una riforma eccellente: si profila, quindi, un percorso di anni, non “un colpo di matita ed è fatta”.
La tempistica, poi, riguarda anche gli altri due problemi cui questa proposta vuole suggerire una soluzione: la disoccupazione giovanile qualificata e il rilancio della domanda interna.
La disoccupazione giovanile qualificata è un problema urgente, e qualsiasi soluzione arriverà ormai in ritardo (la fuga dei cervelli è solo una delle tante conseguenze sociali di questa disoccupazione): è necessario intervenire subito.
Il rilancio della domanda interna, rilancio che lo shock keynesiano, tramite il moltiplicatore, dà immediatamente, è un fattore imprescindibile per poter attuare una riforma della P.A. che sia basata sui necessari mezzi finanziari che tale riforma richiederà; e l’aumento della domanda interna elevando il PIL incrementerà il gettito fiscale, portando nelle casse dello Stato la liquidità indispensabile all’implementazione della riforma stessa della P.A.
La risposta, quindi, al quesito iniziale è: sì, prima le assunzioni e quasi contemporaneamente la riforma della P.A.

Come si situa nel panorama internazionale la Sanità italiana?

Dice la Corte dei conti nella sua relazione sull’andamento della spesa sanitaria al 2013[Leggi]
che, grazie ai tagli lineari sulle principali voci di spesa (consumi intermedi, spesa farmaceutica, spese di personale, acquisto di prestazioni sanitarie da erogatori privati accreditati) il deficit è in costante e progressivo riassorbimento.
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Nel 2009 la spesa sanitaria ammontava a 110,474 miliardi di euro, nel 2013 è scesa a 109,254 ma nel frattempo la popolazione italiana è salita da 60.340.442 abitanti a 60.782.668. L’incidenza sul PIL è del 6,8%, in linea con la media OCSE ma più bassa di quanto sia in Francia, Germania e Regno Unito.
I veri problemi della sanità italiana risiedono dunque tutti nelle sacche di inefficienza (spesso coincidenti con le sacche di corruzione), nella carenza di un’offerta diffusa di cure domiciliari e territoriali e in un insufficiente ammodernamento tecnologico e infrastrutturale; la sanità italiana nel suo complesso sconta inefficienze sia organizzative – la sperequata distribuzione dei letti, per esempio – sia procedurali – come l’elevato numero di prescrizioni di esami –; tali inefficienze si combinano con il sottodimensionamento del numero di infermieri così come di alcune tipologie mediche dovuto a una cattiva distribuzione tra le varie specializzazioni.
Il rischio è di mettere in discussione anche gli attuali livelli di LEA (Livelli Essenziali di Assistenza): con una cattiva distribuzione del personale (infermieri e medici in primis), un uso inappropriato della assistenza ospedaliera Ia quale, oltre a essere concentrata in un numero minore di strutture, deve lavorare per i ricoverati e non per gli esterni (riduzione dei tempi di degenza); e una pervicace inappropriatezza prescrittiva che moltiplica gli esami che “rendono” ma che non servono a migliorare la salute della popolazione.
Esaminando analiticamente la tabella, possiamo rispondere a 5 domande:
1 – In Italia ci sono troppi medici?
L’Italia è tra i paesi con il più alto numero di medici in rapporto alla popolazione, anche se il dato non si discosta in modo significativo dalla media dei paesi OCSE (OECD). Pertanto non si può definirla una criticità. Piuttosto il problema dei medici risiede in una cattiva distribuzione tra le varie loro specializzazioni.
2 – Sono sufficienti gli infermieri in Italia?
Tutti gli indici depongono per una grave carenza di infermieri nel nostro paese. Sia in rapporto alla popolazione, sia nel rapporto medici/infermieri. Questa carenza concorre in modo significativo alla grave insufficienza esistente in Italia di un diffuso sistema di cure domiciliari.
3 – Sono sufficienti i letti di degenza e per acuti?
Pur essendo un po’ più bassa della media OCSE anche questo dato non è particolarmente critico. Il vero problema è che la distribuzione dei letti all’interno del nostro paese è molto disomogenea.
4 – A che livello è la dotazione di apparecchiature sofisticate come TAC e Risonanza magnetica?
È questo un dato certamente clamoroso. L’Italia sembrerebbe essere all’avanguardia nel settore e in realtà il suo parco macchine è sovradimensionato rispetto alle esigenze. Si pone con forza nel nostro sistema sanitario il problema della appropriatezza prescrittiva che è quello che fa lievitare il numero degli esami e quindi incentiva l’esistenza di un numero di TAC e Risonanze magnetica assolutamente illogico.
5 – È vero che in Italia è troppo alta l’incidenza dei parti cesarei?
Non vi è il minimo dubbio che l’Italia, insieme al Portogallo e all’Australia, si discosti in modo estremamente significativo dalla media OCSE per quanto riguarda il ricorso al parto cesareo. È noto che l’intervento di parto cesareo spesso non è assolutamente motivato da necessità di ordine medico ma soggiace ad altre logiche.
Per concludere, il recupero dell’efficienza, che si scontra anche con le resistenze, interne al sistema, di chi è sordo ai cambiamenti epidemiologici e demografici intervenuti in questi ultimi anni, deve dunque recuperare risorse, anche umane, per risolvere questi problemi.
Per chi vuole approfondire:
* OECD (2014) Geographic Variations in Health Care. What Do We Know and What Can Be Done to Improve Health System Performance?, OECD Health Policy Studies, OECD Pblishing,
 http://www.oecd-ilibrary.org/social-issues-migration-health/geographic-variations-in-health-care_9789264216594-en